Yamal non è la fine del mondo, benché in lingua Nenets significhi proprio quello. Forse è solamente l’inizio di una nuova era, di cui il colosso estrattivo Gazprom è certo protagonista, ma non diretto responsabile. Difficilmente si spiegherebbe infatti la popolarità che, in poco più di un decennio, ha investito questo lembo di terra proiettato nel Mar di Kara e lambito a sud dall’imponente estuario dell’Ob. Non c’è niente da nascondere, qui, nulla di cui tacere; anche perché il terreno appare talmente piatto e scabro che lo sguardo corre il serio rischio di non far più ritorno dall’orizzonte.

Ovunque si posi, sulla superficie increspata dei tondi laghi salati, fra i licheni bianchicci della tundra o sotto il madido pelo delle renne al pascolo, la luce polare satura i colori quasi non esistesse fra loro etere alcuno. “Nessun problema – sorride amorevolmente Katja, nella sua impeccabile divisa blu di addetta alle relazioni pubbliche – basta segnalare la stazione di discesa e da lì incamminarsi verso le tende”. E i Nenets sotto ricatto? E gli impianti top secret? E i temutissimi permessi speciali? Katja sbatte le ciglia: con mano pingue ma morbidamente aggraziata, invita a rilassarsi a bordo di una locomotrice d’emergenza appena fuori dalla finestra. “In bocca al lupo! Dimitri e Oleg saranno i vostri compagni di viaggio”. Ah, ecco! Ora è tutto chiaro. Il classico eufemismo per evitare di chiamarli sorveglianti. Eppure, dagli uffici del capolinea, Yamal sembra davvero il posto più innocuo al mondo.
Dall’estate 2011 l’intera penisola è tagliata dalla linea ferroviaria Obskaya-Bovanienkovo, punta di diamante del Megaprogetto Yamal, in virtù del quale Gazprom ha diritto esclusivo a estrarre quanto più gas possibile dai giacimenti locali. I più ricchi al mondo: le ultime cifre parlano addirittura di trilioni di metri cubi. L’infaticabile treno blu serve a smistare tecnici e operai dell’azienda, sebbene all’occorrenza possa accogliere qualche stralunato ospite di passaggio. A latitudini tanto estreme, comunque, i visitatori in arrivo sono ben pochi, tenuto conto che basta intrattenersi qualche chilometro più a sud per godere di folkloristici quadretti dedicati alla vita degli allevatori nomadi. Il museo etnografico di Salekhard. Il villaggio nazionale di Naryan Mar. Il mercato di Nadym. Chiedere al primo operatore di turno e il sogno sarà bel che servito.
Mentre la locomotrice sgranchisce le sue giunture farraginose, Oleg ne approfitta per far bollire l’acqua del tè, servendo in cabina wafer al cioccolato del tutto inaspettati. Fuori dal finestrino si divincola solo qualche larice striminzito, forse allarmato dai serpenti d’acqua azzurra che, in fuga dagli ultimi cumuli di neve, strisciano per le violacee distese di fiori Ivan Chai. Una cornice perfetta per assaporare le ultime pagine di Alla stazione di Krecetovka.

Al decimo chilometro la locomotrice è però fusa. “Niente paura – incalza Dimitri il macchinista – sta giusto arrivando un altro convoglio, così potrete proseguire il viaggio su quello”. Dalle pagine del racconto di Solzenicyn sorride il tenente Zotov. Le renne occhieggiano con aria concupiscente, benché ogni volta che tentino di avvicinare il binario, il loro passo si faccia a sorpresa più incerto e titubante. “Non hanno ancora imparato. Lo scorso inverno ne abbiamo maciullate tre in un colpo solo – sghignazza Oleg – ma non si vedeva una mazza. Buio pesto, porco di un diavolo! E sui binari persino una foschia fittissima. Immagino che il loro padrone non sarà stato affatto contento nel ritrovarle”.
Con quello che valgono, sicuramente no. I 200 euro generalmente riconosciuti per una renna viva non rendono affatto giustizia del suo immenso valore per i popoli della tundra. La renna è figlia, sorella e madre. Lei è la loro compagna, la loro guida, la loro stessa pelle. Nenets e renne vivono in simbiosi sin dalla nascita: ovunque s’aggroviglino licheni dolciastri, o acidule bacche maroshka, là si spingono insieme. E insieme giocano. Gioiscono. Ormai l’uno necessita dell’altro per tutto, per stare in forma, esattamente come per resistere alla morsa del freddo, che qui osa toccare persino i meno 50 gradi d’inverno. Si allenano spalla a spalla, vengono a cercarsi quando non riconoscono le proprie orme, si aiutano a costruire casa, ma pure a sbaraccarla in fretta e furia non appena avvertano gli spiriti dei ghiacci sopraggiungere.

Il trasbordo sul treno diretto a nord è uno spettacolo pirotecnico di bottiglie di vodka stappate dalla prima all’ultima carrozza. Naturalmente con rincalzi di cetrioli al sale su pane nero, o di fette di salame pronte a scongiurare l’arrivo dei biscotti speziati. “I Nenets? – bofonchia Pavel, giovane tecnico delle turbine in cerca di lauti stipendi – Ah, ma non è per nulla facile incontrarli! Si muovono di continuo, per cui non sai mai bene dove siano accampati. Puoi trovarli vicino alla fattoria di Laboravaya, dove hanno una loro scuola e insegna pure la poetessa Anna Nerkangi, ma potrebbero tranquillamente essersi trasferiti più a nord, alla stazione 5 o 8. Meglio farsi dare aggiornamenti via radio”. Mentre il sole finge di nascondersi dietro l’orizzonte pennellandovi sfumature di un rosa imbarazzato, il treno viene improvvisamente sorpreso dal sonno. Non appena l’euforia dell’alcool comincia infatti a diradarsi, chiudere gli occhi appare ai passeggeri l’ultima vera via di fuga dalla realtà. Perché si va. Si va. Si va. Ma nessuno sa davvero bene dove. Impercettibilmente, nelle pieghe oscure del cuore, a insinuarsi sono piuttosto lo sgomento e la nostalgia per quelle immensità oltre il finestrino, dove la notte e il giorno non sono più lancette di un impeccabile orologio cosmico, bensì una ambigua soglia da cui occhieggiano misteriosi buchi neri.

Qualche minuto dopo le 4, o forse trascorsi anni interi in uno stato di etilico sopore, una mano nerboruta preme, spinge, affretta. Sul fondo del vagone, una porta ben più reale di quella dischiusa dalle aurore artiche chiama e non lascia appello. Soffia aria talmente fredda da costringere il corpo a scatti inconsulti.
“Giù! Giù! Non è più possibile proseguire!”. Una voce urla dalla stazione di sosta. Qualcuno corre sopra i container. Le radiotrasmittenti gracchiano comandi incomprensibili. Poi lo sbuffo improvviso del treno e l’incanto si spezza sotto il peso esorbitante di uno zaino caricato in spalla. Dovrebbe essere la stazione numero 5, ma nulla la distingue dalla 7 o la 9. Sembrano fatte tutte con lo stampino. Prefabbricati bianchi e azzurri, divisi in piccole cellette iper-riscaldate, dove uomini soli s’arrabattano fra mutande stese nell’essicatoio, poster di attrici procaci e scacchiere con pedoni drammaticamente abbattuti.
“Benvenuto! Stasera sarai nostro ospite!”. Un possente ingegnere dal caschetto giallo incombe e nella sala di comunicazione a braccia incrociate. Stasera? Ma il sole non ha appena iniziato la sua risalita? “Stiamo verificando chi ha rilasciato l’autorizzazione alla visita degli accampamenti Nenets. Ci vorrà un po’, ma senza un documento vidimato a Obskaya è impossibile muoversi oltre quella porta”. Pausa minatoria in perfetto stile Zotov. Hai voglia a ripetere le parole della dolce Katja. O a chiedere di essere scortato appena oltre le baracche, dove già si levano fumi dai chuum accampati. Dieci minuti. Anche cinque. Macché. I sorrisi si spengono. Gli occhi s’adombrano. Mentre scatta la rodatissima operazione Smiert spionem, camuffata in un menù di domande di cortesia dal sapore sempre più amaro, un instabile segnale web dischiude d’improvviso uno spiraglio attraverso la lontanissima Mosca. “Se non si chiede immediatamente l’invio di una lettera d’autorizzazione per la visita di Yamal, potrebbero sorgere problemi molto più gravi. Il tempo stringe”. E via. Girandola di telefoni nelle Russie di tutti gli Zar. Skype che attende il trasferimento di un file quasi fosse la valigetta sterile per un trapianto a cuore aperto. E nel mezzo, l’incubo del treno di rientro, che già fa vibrare le rotaie. Sì, è vicino. Ogni minuto sempre più vicino, senza che il permesso si palesi fra i tentacoli della burocrazia. “Ci siamo! Prendete lo zaino”. Un demone feroce deve aver spostato le lancette dell’orologio. Il mostro di lamiere è fuori e ansima vapore, mentre il download è appena cominciato. Ma non c’è scusa che tenga. Il treno è in attesa di un solo e unico ospite: “Avanti! Avanti!”. Palpiti. Sgomento. E’ la fine. O forse no: download completed!

E di nuovo le carrozze pervase d’odor di zuppa e funghi secchi. I respiri pesanti, ma in direzione sud. Là dietro, invece, i fumi delle tende si fanno più radi, mentre la tundra allunga la sua mano arcigna su baracche e antenne storte.
A bordo non è salita solo la delusione, ma anche quel subdolo passeggero che mai nessuno nota. Siede dove meno te lo aspetti, pronto a inghiottire il seme della rivolta col suo ipnotico rollio e i brindisi zuppi di vodka. Lo chiamano Oblomov, ma talvolta si rivela un insospettabile alleato.
“Ho giusto ricevuto l’autorizzazione a incontrare i rappresentanti della comunità Nenets”. Il capotreno sbadiglia e si china sul documento strabuzzando gli occhi. Mugugna un po’ alticcio: ha bisogno di riposare per smaltire i postumi di una libagione polare e non è dunque il caso di questionare su vicende che attirerebbero l’attenzione della polizia ferroviaria.
Alla fermata successiva riappaiono i chuum e chi s’è visto s’è visto. Juri apre la strada, col passo deciso e coraggioso di chi sa che qualcosa di grosso bolle in pentola. Ogni cento metri si volta per controllare che le gelide folate di vento non abbiano spazzato via i resti della sua missione, composta in realtà da lui solo e da un giornalista precipitato da Marte. Niente controllo rotaie, oggi. Si va a bere tè nella tundra. Un manipolo di bimbi, vestiti in giacconi di renna decisamente fuori taglia, corre incontro saltando sulle assi di legno della ferrovia: forse sperano in un pacchetto di caramelle, forse vengono solo a barattare zucchero per borsellini in pelle.

“Sono i figli di Jenia – s’affretta a spiegare Juri – sono ancora piccoli, ma già ottimi allevatori. Sanno usare perfettamente il lazo. D’altra parte qui l’età conta poco: a quattro anni devi essere già in grado di catturare una renna, altrimenti la famiglia avrà grosse difficoltà nell’accudire una mandria di molti capi”. Durante il periodo estivo la vita dei Nenets sembra meno aspra di quanto sia. Non hanno bisogno di percorrere lunghi chilometri verso i mercati cittadini, dove vanno a far provviste e a vendere i loro migliori esemplari: basta avere un po’ di pazienza e qualcosa di fresco si mette sempre sotto i denti. La prova vivente è lo zio di Jenia, impegnato a fare a brandelli il corpo di una foca con truculenta soddisfazione. Raschia, scava col coltello affilatissimo, strofina erbe aromatiche sulla carne ancora insanguinata. Di tanto in tanto leva lo sguardo verso il lago vicino, quasi a pregustare la prossima battuta di pesca. Le nipotine hanno appena munto due renne bianche e barcollano serissime verso le tende, stringendo quattro secchi di latte colmi fino all’orlo. Poco più in là, dove un lungo ramo è stato infisso nel terreno più morbido, è invece in corso una gara di lancio della corda.
“Non viviamo di sola caccia o allevamento – si giustifica un po’ imbarazzato Jenia, mentre solleva il manto di pelle che dischiude l’ingresso al suo chuum – perché gli spacci della ferrovia hanno sempre qualcosa di buono per i bimbi. Biscotti, pane fresco, tè aromatico. Accamparsi nei pressi delle rotaie ha i suoi lati positivi, anche se per le renne non è facile accettare la loro presenza. Si bloccano spaventate e talvolta si rifiutano di proseguire oltre”.
Una ragione sufficiente per dividere la famiglia. Il nonno di Jenia non ha voluto scendere a compromessi e si è spinto molto più a nord, dove gli spiriti della tundra parlano ancora al suo vecchio tamburo. Là nessuno lo disturba, anche se la vita è meno facile: a lui basta guardare negli occhi le renne, bisbigliare alle loro orecchie, osservare il fremito delle loro narici. Quelli sono i segnali che contano, non certo il fischio di una locomotiva, perché gli spiriti amano parlare con gli animali che sanno ancora ascoltare e a loro soli suggeriscono la strada da percorrere verso i laghi più ricchi. Quando non lo fanno, si deve però ricorrere a un sacrificio che tutti vorrebbero evitare.

“Ai bimbi dispiace sempre separarsi dalle proprie renne – riprede Jenia – ma solo il loro sangue è capace di far parlare gli spiriti. Ricordo che da piccolo mio nonno mi portava sempre su un’altura dove aveva conficcato alcuni bastoncini, non più altri di trenta o quaranta centimetri. Qualcuno aveva scolpito loro la bocca, il naso, gli occhi: in quelle cavità mio nonno riversava il sangue della renna sacrificata, aggiungendo talvolta qualche goccia di vodka. Quindi si metteva a pregare in prossimità di una slitta capovolta, sotto la quale si diceva fosse sepolto un’antica guida del nostro popolo e invitava poi tutti a lasciare in pegno qualche osso, il cranio di un orso, o anche semplici chiodi inutilizzati. Il momento migliore arrivava quando veniva dispensato il sangue caldo della renna: allora la tristezza passava, perché sapevamo che la nostra compagna se n’era andata per aiutare proprio noi”.
Il cruccio del capostazione, al ritorno dall’accampamento, appare ben più grave di quello di un vampiro Nenets. Negli uffici nessuno sorride più. Nessuno parla. Sembra persino vietato usare la toilette di servizio e, quando Juri s’accomiata frettolosamente, un velo di sgomento cala sui suoi occhi. Impossibile raggiungerlo per l’ultima tazza di tè della giornata. La porta dell’ufficio è piantonata. “Hanno chiamato da Obskaya. Hanno bisogno di fare alcune domande”. Il capostazione cerca di sostenere lo sguardo con fermezza, ma si vede bene che la saliva gli si rapprende in gola. Quindi lo sferragliare del treno nella stazione deserta. Di nuovo. Come uno spettro redivivo. Come un segugio infaticabile. Dal vagone di testa balza a terra un giovane in uniforme e, voltandosi glaciale, fa segno di montare sulla scaletta.

Peccato. Mancavano solo poche righe per concludere il racconto di Solzenicin. “Lei…mi trattiene?!” – gridò. “Ma perché, compagno tenente? Mi lasci raggiungere la mia tradotta!“. La porta si serra. L’aiutante di bordo scuote il capo sconsolata. Fuori dal finestrino il capostazione non saluta. Se ne sta in piedi paralizzato. “…contro la sua volontà, Zotov dovette voltarsi a guardare e ancora una volta – l’ultima nella sua vita – alla fioca luce della lanterna vide quel viso, il viso disperato di Lear nel sepolcro. “Che cosa fa! Che cosa fa!” – gridava Tverritinov con una voce risonante come una campana. – Ma a questo non c’è più rimedio!”… Nel suo ufficio sedette al tavolo e scrisse: “Centro politico Sezione Trasporti Commissariato dell’Interno”…Ma per tutta la vita Zotov non poté dimenticare quell’uomo”.
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