Non ricordo da quanti decenni, ormai, l’ascoltare questo suono, il solo leggere queste tre parole mi procura una sensazione particolare. Una specie di tuffo al cuore, difficile da spiegare. Specialmente a quelli che non ti potranno mai capire. Ma –paradossalmente- è molto meglio che siano tanti quelli che non ti capiscono, e che siano pochi quelli che sanno di cosa parli. E ne possano godere in… solitudine. Cioè noi, accomunati dalla passione per le terre polari…
Insomma, il Polo Nord è sempre stato per me una specie di ossessione: non riesco a trovare una parola che possa meglio rappresentare le mie emozioni, il mio stato d’animo davanti a questo posto. Per anni e anni ho pensato a come raggiungerlo, magari per realizzare un documentario per la mia azienda, la Rai. Ho pensato agli itinerari, ai mezzi di trasporto, a possibili compagni di viaggio, a possibili organizzazioni. Ho pensato ai costi, tremendamente alti. Finchè, un giorno, mi è venuta un’idea. Era il 2006. Quell’anno ricorreva l’ottantesimo anniversario della scoperta del Polo Nord da parte del norvegese Roald Amundsen e dell’italiano Umberto Nobile: insieme al loro equipaggio (per la quasi totalità italiano) nel 1926 avevano infatti trasvolato la calotta polare a bordo del dirigibile “Norge”, passando proprio sul polo. Erano stati –indiscutibilmente – i primi a vedere, con certezza, il Polo Nord, anche se dall’alto. E siccome “chi scopre una cosa basta che la veda, anche senza toccarla” (come accade –ad esempio- per le scoperte astronomiche) Amundsen e Nobile sono considerati gli scopritori del Polo Nord. La mente di quell’impresa fu sicuramente Amundsen. Ma il braccio operativo fu Nobile, con i suoi uomini. Amundsen aveva capito che per trasvolare per la prima volta (e quindi vedere) il Polo Nord sarebbe servito un mezzo particolare. Scartati altri mezzi di trasporto per vari motivi, la scelta cadde sul dirigibile. E chi erano, negli anni venti, i migliori costruttori e i migliori piloti di dirigibili ? Gli italiani. Quindi Amundsen, per poter portare a termine la sua impresa, “noleggiò” un dirigibile italiano (che battezzò “Norge”, cioè “Norvegia”) e ne diede il comando ad un italiano, Umberto Nobile.
Dopo un lungo viaggio da Roma, passando per Oslo, e risalendo sempre più verso nord, il dirigibile “Norge” arrivò finalmente alle isole Svalbard, e attraccò all’ormai famoso pilone che ancora oggi si erge nella Baia del Re, proprio davanti all’ultimo avamposto dell’umanità, il villaggio di Ny Alesund, per spiccare il salto decisivo: dalle Svalbard avrebbe trasvolato il polo, per poi atterrare sulla prima terra che avrebbe incontrato dall’altra parte della calotta polare, vale a dire l’Alaska.
Quel volo del Norge ebbe un grande successo, e tutto filò liscio. Quando gli strumenti fecero capire che il “Norge” stava passando sul Polo Nord, dal dirigibile vennero lanciate le bandiere italiana e norvegese sul pack. Poi, il volo continuò per finire –come da programma- con l’atterraggio in Alaska.
E qui torniamo alla mia idea. Anni prima –durante la mia partecipazione alle prime, inarrivabili spedizioni dei camion di Overland di metà anni ‘90- avevo conosciuto Petter Johannesen, un dinamico uomo d’affari norvegese trapiantato da decenni a Milano, che mi aveva raccontato essere un pronipote di Roald Amundsen. In previsione di quell’anniversario del 2006, negli ultimi mesi del 2005 ho ricercato Petter, proponendogli di rifare più o meno lo stesso viaggio fatto ottanta anni prima da Amundsen e Nobile. Ovviamente con altri mezzi. Il tutto sarebbe stato filmato da Marco Sanga, uno dei migliori telecineoperatori della Rai, ma soprattutto mio amico fraterno, anche lui con la passione per l’avventura nei luoghi più remoti e selvaggi del pianeta. Non mi dilungo ora sulla fase ideativa, organizzativa e realizzativa della cosa. Il viaggio si è fatto, e ne ho tratto un documentario per “Speciale TG1”, intitolato “L’impresa del Norge”.
Era aprile quando siamo partiti da Roma, ovviamente non a bordo di un dirigibile, ma molto più comodamente (e meno avventurosamente) su un aereo di linea. Prima Oslo, poi le mitiche isole Svalbard. Dalla “capitale” delle Svalbard, Longyearbyen, con un piccolo aereo abbiamo poi raggiunto Ny Alesund e la famosa Baia del Re.
Già volare in Norvegia, per il sottoscritto, continua ad essere ogni volta una meraviglia. Volare fino alle Svalbard, poi, è per me sempre un’esperienza fantastica. Atterrare alla Baia del Re comincia ad essere quasi incredibile: il villaggio di Ny Alesund, frequentato praticamente solo da scienziati di tutto il mondo, è l’insediamento più a nord del pianeta tra quelli abitati continuativamente dall’uomo. Sorge lungo un profondo e discretamente largo fiordo, pianeggiante verso l’acqua, ma circondato più dietro da montagne e picchi di una bellezza titanica. Quali aggettivi usare -per descrivere quello che si vede- senza cadere nella retorica, nel già scritto, nel già sentito, nello scontato ? Ecco il pugno di edifici in legno che costituiscono Ny Alesund, praticamente sulle rive dell’insenatura. E accanto, l’enorme spianata con l’ormai celebre traliccio, isolato, come un enorme e spoglio albero, un monumento all’avventura, alla voglia dell’uomo di conoscere il suo pianeta, di spingersi sempre “più in là”. La Baia del Re è uno dei luoghi dove maggiormente si può “sentire” la voglia di avventura, un posto che sembra quasi creato, disegnato per rappresentare l’anticamera, l’inizio di un qualcosa di avventuroso, un vero “campo base” per andare chissà dove.
Dalla Baia del Re siamo poi tornati a Longyearbyen, interrompendo momentaneamente la direzione giusta di questo nostro viaggio rievocativo verso il Polo Nord. Solo dalla “capitale” delle Svalbard può infatti decollare l’aereo cargo russo che trasporta uomini e materiali a un centinaio di chilometri dal tetto del mondo, sul pack artico. Abbiamo preso posto sull’aereo, sui sedili sistemati nella parte anteriore della grossa carlinga. Tutta la parte posteriore era invece occupata da una piccola “montagna” di materiale di ogni tipo, tenuta assieme da una specie di grossa rete. Il volo da Longyearbyen verso nord è durato circa 4 ore. Le isole Svalbard sono presto sparite dai nostri sguardi, per lasciare spazio, sotto di noi, ad un oceano artico di un blu intenso, subito disseminato dalle prime, piccole macchie bianche sul mare, che altro non erano che i primi iceberg, sempre più fitti mano a mano che salivamo dritti verso nord. Il bianco è poi diventato sempre più uniforme: volavamo finalmente sul pack, il celeberrimo pack artico !
Le ultime due ore di volo le abbiamo passate ad ammirare stupefatti questo deserto bianco, che si perdeva all’orizzonte. Scrutavamo le irregolarità del terreno, i toni più scuri, quelli più chiari, immaginavamo come potesse essere questa distesa immensa, infinita, come una tavolozza con tutte le sfumature dal bianco al grigio, al celeste, talvolta al blu. Poi, finalmente, l’annuncio del comandante dell’aereo che tutti aspettavamo con trepidazione. Nessuno ha avuto bisogno di traduzione dal russo per capire che ci si stava chiedendo di allacciare le cinture di sicurezza. Stavamo atterrando sul pack !!! Il volo si è fatto sempre più radente, la distesa bianca sempre più vicina. L’aereo russo ha toccato il mare ghiacciato, correndo su una pista provvisoria, spianata appena per poche centinaia di metri. E l’aereo russo è riuscito a fermarsi entro quella pista di fortuna, frenando con una potenza incredibile, sollevando un’enorme nuvola di polvere bianca.
Vicino alla “pista”, un pugno di grosse tende: la “base” artica russa nella zona del polo nord era tutta qui. Una base ovviamente provvisoria, sul pack, in lento ma costante movimento. Una base, praticamente, sul nulla, sul mare ghiacciato. Dopo l’estate, le tende sarebbero state smontate, e tutto riportato sulle isole Svalbard. Accanto alle tende, due grossi elicotteri da 15-20 persone.. Sarebbero stati l’ultimo mezzo di trasporto che, dopo un volo di circa 40 minuti, ci avrebbe portato nel punto esatto del polo Nord !!! L’elicottero è decollato poco dopo l’atterraggio del nostro aereo alla “base” russa. I piloti seguivano le indicazioni del gps, puntando dritti verso l’orizzonte. Ma per 360 gradi attorno, si vedeva la stessa, grandiosa e infinita distesa artica. Ad un tratto, l’elicottero si è abbassato, e il pilota ha cercato il punto migliore per toccare il pack. Quando lo ha toccato, un brivido ha percorso la schiena di chi era a bordo. Il gps segnava –inequivocabilmente- che eravamo al Polo nord geografico! Il pilota ha tenuto i motori accesi, le pale roteanti, ancora per un paio di minuti: voleva essere sicuro che anche in quel punto il pack fosse spesso a sufficienza per reggere il peso del grosso elicottero, e non ci fosse il pericolo che si aprisse improvvisamente, causando una tragedia. I motori si sono spenti. Il portellone dell’elicottero si è aperto. Una piccola scaletta. Confesso, quando ho messo il piede sul quel pack , ho avuto una sensazione quasi di stordimento, tanta era l’emozione.
Ero arrivato –finalmente- al Polo Nord ! Al Polo Nord geografico!
Prima di mettermi al lavoro con Petter davanti alla telecamera di Marco, ho vissuto un momento interiore molto intenso. Mi guardavo intorno stupefatto, continuando a controllare il gps e quindi a spostarmi di qualche passo perché il pack era ovviamente in lentissimo movimento, e il punto, “quel” punto geografico, il Polo Nord, si spostava impercettibilmente, minuto dopo minuto. Con lo scarpone ho “scavato” un po’, ho tolto lo strato superficiale di neve e ghiaccio più fresco, e sono arrivato a toccare il ghiaccio vivo. Era quasi nero, e sotto si intuivano i toni scurissimi dei verdi e dei blu dell’oceano: ho avuto una strana sensazione, pensando che non eravamo sulla terraferma, ma su un’enorme lastra di ghiaccio, in lentissimo e costante movimento sul mare che aveva imprigionato sotto a sé. Ho guardato nuovamente attorno a me: solo 360 gradi bianchi, qualche piccola asperità e altura di ghiaccio, e una cupola azzurra al di sopra di tutto.
Non c’era altro. Ma per me c’era tutto.Per molte persone, probabilmente, questo posto non avrebbe mai detto nulla. Se a me, invece, avessero chiesto perché avevo tanto combattuto per arrivarci, avrei risposto semplicemente “perché era lì”. Perché era il Polo Nord. Perché stava al Polo Nord.
Per chi sa cosa vuol dire il grande Nord, nessuna spiegazione è necessaria. Per chi non lo sa, nessuna spiegazione è possibile.
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