Il Groenlandese, oltre che un abitante della Groenlandia, è anche un cane ma mica un cane qualsiasi: secondo alcuni esperti di razze canine discende direttamente dal lupo artico e per aspetto è il cane che più assomiglia al suo selvaggio antenato. E’ forte, coraggioso e intraprendente, molto intelligente: naturalmente è un cane da slitta, alto mediamente una sessantina di centimetri, massiccio e muscoloso, capoccione importante da lupo vero, muso duro che impone rispetto. Il dorso è come indossasse un mantello scuro sul resto del corpo che è chiaro. Gli occhi sono in tono con il mantello e parlano, ti dicono freddamente: “Meglio che non mi rompi le scatole!”, questa è la mia impressione. Essendo cane da slitta ha un forte istinto che lo predispone alla muta ma deve sentire un polso autoritario che lo guida perché di suo è piuttosto anarchico, restio ad eseguire comandi. Il carattere ha mantenuto alcune caratteristiche dei lupi come ad esempio l’assoluta indipendenza, la tendenza ad essere sospettoso e un poco infido, capace di diventare aggressivo contro umani che non conosce e altri cani, insomma un caratteraccio che mai sarà cane di compagnia che possa vivere in una casa e men che mai potrà essere cane da guardia giacché per istinto primordiale non ha percezione di una proprietà che debba essere difesa. Davanti a ogni casetta colorata groenlandese, oltre all’indispensabile motoslitta parcheggiata, c’è un cane groenlandese che se ne sta all’addiaccio, legato a un palo con una lunga catena: di solito si aggira in tondo, ingrugnito, palesemente scocciato per la situazione, oppure se ne sta sdegnosamente seduto sulle zampe posteriori ed ulula tutto il suo malumore, oppure sta disteso con lo sguardo che dardeggia freddo come il ghiaccio su cui è accucciato.
Queste cosucce che mi hanno reso ‘sto cagnaccio piuttosto simpatico le ho lette al confortevolissimo caldo che regna all’interno di tutte le case di Qeqertarsuaq, villaggio di casette colorate di rosso, di verde, di giallo, di azzurro e di lilla, capoluogo dell’ isola Disko, sul versante ovest della Groenlandia. Dentro casa fa un caldo così caldo che potresti startene tranquillamente nudo mentre fuori è tutto ghiaccio. Ho voluto documentarmi un poco il giorno prima che una muta di 12 cani groenlandesi mi portasse in slitta su per la Blæsedal, correndo a rotta di collo per non so più quanto tempo con l’aria di divertirsi un mondo. Blæsedal è un vasto canalone di ghiaccio in cui s’incanala il vento e per questo si chiama la valle che soffia (Blæsedal tradotto in italiano).
Una scorreria in slitta mi attirava proprio! Un desiderio che avevo da quando, ragazzo, ho divorato i libri di Jack London: “Zanna bianca” e “Il richiamo della foresta”. Solo che i libri di London sono ambientati in Alaska, fra boschi che in Groenlandia non ci sono, e i cani non sono Groenlandesi ma Husky, cugini, d’accordo, ma diversi per indole. Della terminologia americana sapevo tutto: Sleddog (Sled-dog,”cane da slitta”), attività sportiva il cui fulcro sono una slitta, uno o più cani (in genere da due a venti) che la trainano, un uomo, detto musher che la guida. Persino la disposizione canonica della muta conoscevo: il Leader (Leader-dog) è il capo muta, quello che ha il compito importante di eseguire i comandi impartiti dal musher; gli Swing dogs, veloci e scattanti e occasionalmente utilizzabili come leader; i Team dogs, cani che fanno squadra, intercambiabili nei ruoli; i Wheel dogs, quelli più potenti e robusti, attaccati immediatamente davanti alla slitta. Della terminologia groenlandese non sapevo un tubo. E in Groenlandia non ci sono piste battute nella neve come in Alaska: le slitte di legno scivolano sul duro ghiaccio, beccandosi ogni buca, volando sulle cunette, scapicollandosi negli avvallamenti, e il tuo osso sacro è messo a così dura prova che alla fine bestemmia proprio.
I cani corrono a rotta di collo, pare si divertano un sacco, ma il mio musher (lo chiamo così perché non ho la minima idea di come si debba chiamarlo in danese o in dialetto groenlandese). Lui è un giovanotto alto e secco, gli occhi allungati denunciano il suo sangue misto, schiocca una lunga frusta ma solo per far sentire il suono ai cani, non ha intenzione di frustarli sul serio. Però non ha il polso fermo e autoritario richiesto e i cani, mi pare, corrono in totale anarchia; cambiano traiettoria nel bel mezzo della corsa e le corregge che uniscono la muta s’intrecciano; un cane resta impigliato per una zampa e corre a tre gambe, bravo però perché non perde il ritmo della corsa e alla fine riesce anche a liberare la zampa. Gli scossoni sono tremendi, la temperatura deve essere molto abbondantemente sotto lo zero, lo scenario è fantastico, il ghiaccio brilla così tanto, colpito dai raggi del sole radente, che lo reggi a malapena anche con gli occhiali da sole. Il cielo è terso, l’atmosfera incontaminata, tanto che hai l’impressione di ubriacarti di aria pura.
All’imboccatura alta di Blæsedal c’è un piccolo rifugio. I cani sembrano sapere che lì si riposeranno. Infatti si fa tappa. Si scende dalla slitta frastornati per lo sballottamento e per l’aria in faccia che ti ha arrossato le gote e raggrinzito la pelle. E’ previsto uno spuntino, panini e sandwich, tè caldo dai thermos e snaps (grappa) che riscalda cuori e viscere, ma non mi va di unirmi ai compagni viaggiatori che fanno parte del gruppo escursionisti in slitta, ce ne sono sei di slitte, ognuna con i suoi dodici cani groenlandesi. Preferisco restare in disparte a guardare i cani che se ne stanno stravaccati nel ghiaccio, sganciati dalle slitte. Mi ricordo di aver letto che godono di particolari qualità fisiche come ad esempio l’isolamento termico e un pelo idrorepellente. Le orecchie piccole aiutano a ridurre il rischio di congelamento e il collare di fitto pelo attorno a tutto il collo aiuta a proteggerli dal ghiaccio. Adesso se ne stanno in totale relax, ti guardano con gli occhi che ti tengono lontano e si crogiolano al sole: sole artico, non certo quello dei Caraibi! Alcuni si appoggiano agli altri come quando un fidanzato posa il capo in grembo alla fidanzata, neanche fossero su un morbido tappeto di erba fiorita e non sul duro ghiaccio. Mi avvicino un poco ma il mio musher mi fa cenno di stare alla larga: in un inglese persino più rudimentale del mio mi fa capire che è meglio non avvicinarsi troppo ai cani mentre riposano. Allora mi siedo sulla slitta, coccige dolente, e chiudo gli occhi a godermi il sole che mi riscalda le guance pressoché gelate e rimette il sangue in circolazione. Forse mi assopisco, incantato da quell’atmosfera di ghiaccio che ti trasporta, volente o nolente, in un altro mondo così diverso dal tuo abituale.
Quando riapro gli occhi, dietro gli occhiali da sole, lui è seduto sulle zampe posteriori a neanche mezzo metro da me e mi guarda con occhi che sembrano puntaspilli: è il capo muta della mia slitta, il leader-dog. Il muso è come avesse la maschera di Zorro. E’ striato di nero intorno agli occhi, lungo il naso, agli angoli della bocca. E mi guarda fisso, mi scruta: forse sono quello, fra tutti i viaggiatori di quel suo giorno di lavoro, che lo incuriosisce di più. Il musher si avvicina a controllare che non ci siano problemi. Accenno con la testa al cane:
-Name?- Chiedo.
-Ulv!-
Non capisco. Lui capisce che non capisco e traduce in inglese: -Wolf! –
Lupo…ma non mi dire! Che gran sforzo di fantasia!
Il musher vede che è tutto tranquillo e se ne torna fra gli altri musher a bere snaps.
Il cane resta seduto a guardarmi. E’ sempre legato alle corregge della muta e mi pare che non possa avvicinarsi oltre.
-Ulv…- Faccio il suo nome. E lui si alza e si avvicina piano. La correggia che lo lega agli altri cani della muta è lunga abbastanza per consentirgli di avvicinarsi quasi a contatto delle mie gambe. Istintivamente alzo la mano destra guantata per fargli una carezza ma lui me la addenta. Il guanto è imbottito e lui non vuole farmi male, però neppure mi molla quando cerco di sottrarre la mano ai suoi denti: stringe un poco di più, come a dire non ti mollo. I musher sono lontani, bevono, parlano e ridono tra loro. Il gruppo dei miei compagni viaggiatori è ancora più lontano.
-Ulv che vuoi da me?-
Mi tiene la mano fra i denti: sarà perché lui le mani non ce l’ha e questo è l’unico modo che ha per stringere la mia? Insomma siamo amici? In fondo non è strano, io e i cani abbiamo un buon rapporto. Mi guarda, sarà un’impressione ma gli occhi hanno perso la freddezza che mette a disagio. Mi domanda qualcosa?
-Che vuoi sapere, eh?- Gli chiedo. Mi viene naturale parlarci, piano, sottovoce, come gli rivelassi un segreto, affari nostri.
-Vuoi sapere che ci faccio qui a Disko?-
Eh, già…è sull’isola Disko che mi trovo, Qeqertarsuatsiaq in groenlandese, la più grande isola dell’arcipelago della baia, Baia di Disko per l’appunto, e dell’intera Groenlandia (ma anche la Groenlandia è un’ isola, la più grande del mondo e Disko è a sua volta fra le 100 isole più grandi del mondo).
-Che ci sono venuto a fare?- Ulv ha l’aria di voler sapere proprio questo. Certo, io parlo italiano e lui è groenlandese! Ma è un cagnaccio intelligente assai e forse, mi piace crederlo, ci intendiamo bene lo stesso. Allora comincio a spiegargli che sono venuto a Disko, come del resto fanno tutti i viaggiatori, per vedere gli iceberg e le Balene Franche. Gli iceberg ci sono eccome ma le balene no. Lui mi da una strizzatina alla mano con i denti e mi guarda, lo giuro, con gli occhi di chi parrebbe interessato a quel che gli vai raccontando. Dunque continuo: gli iceberg non potrebbero non esserci visto che il ghiacciaio Jakobshavn che incombe sulla Baia di Disko produce da solo il 10% di tutti gli iceberg della Groenlandia e talvolta sono così grandi che rimangono ancorati ai bassi fondali anche per anni. Di Balene Franche, invece, neanche l’ombra. Eppure è Primavera e questa è la stagione in cui vengono nella baia a riprodursi.
L’altro giorno abbiamo visitato la Arctic Station, stazione scientifica del Danish University Research Institute. Qui gli scienziati ci hanno spiegato come lavorano con le Balene Franche, sono tutte catalogate perché corrono rischio di estinzione, ne sono rimaste, in tutto, circa 300. Le seguono con i sonar, le localizzano non diversamente da come una nave da guerra localizza un sommergibile e ci hanno informati che erano presenti nella baia in grande numero. Come la mettiamo? Beh, può essere per via che la banchisa quest’anno è piuttosto in ritardo nel suo scioglimento e questo dà fastidio alle balene che preferiscono restarsene sott’acqua. E va bene…ma devono pur emergere per respirare, no?! In effetti è così, hanno detto, e ci hanno incoraggiati ad effettuare una terza escursione nella baia per avvistarle, sebbene nelle due escursioni precedenti non avessimo visto neanche il miraggio del caratteristico soffio a forma di V che può raggiungere l’altezza di 4 metri.
Dunque ci siamo imbarcati su un battello dalla prua rinforzata, tutto dipinto di rosso, che si chiama Hvalen. Indovina indovinello: cosa vuol dire hvalen in danese? Vuol dire balena, ovvio no? Il battello sembrava intrappolato nel ghiaccio insieme ad altri battelli ma invece si è mosso piano, si è staccato dalla morsa ed ha percorso uno stretto canale aperto nella banchisa che consente l’uscita in mare aperto. Sulle sponde del canale vari pescatori solitari: ognuno aveva aperto un buco nel ghiaccio ed aveva gettato l’amo alla pesca di halibut; ad ogni buco stazionava un cane groenlandese, non si capisce se a protezione del pescatore o in attesa di papparsi un halibut appena preso.
In mare aperto, navigando tra gli iceberg abbaglianti di bianco, venati di azzurro, cangianti di sfumature viola, speravamo di vedere finalmente le Balene Franche ma niente da fare, neanche l’ombra di balene, mi è venuto di pensare che avessero fatto sciopero. Insomma, sono venuto fin qui dall’Italia apposta per voi, care balene…e voi nemmeno mettete il naso fuori per respirare!
-Però che spettacolo!- ha detto qualcuno al mio fianco, sul ponte del Hvalen.
Spettacolo? Ma certo, c’ero dentro nello spettacolo e con la fissa delle balene che non si vedevano rischiavo di non godermelo come si meritava: il mondo degli iceberg.
Ulv mordicchia piano il guanto imbottito che mi copre la mano e mi guarda con occhi che forse mi rimproverano un po’: “Ma quanto chiacchieri!” pare mi dica. Ma io continuo perché anche sugli iceberg, in danese isbjerg, mi sono documentato prima di partire. So che in genere li si classifica, oltre che per dimensione, in base alla forma e le due forme principali sono quella tabulare e quella non tabulare.
Gli iceberg tabulari sono quelli che emergono dal mare come un altopiano, piatti in cima come una pista su cui possano correre i cani con le slitte e possono essere ampi come piccole isole.
Gli iceberg non tabulari si sbizzarriscono in varie forme e il Hvalen ci zigzagava in mezzo come se la Disko Bay fosse un vero e proprio showroom dove gli iceberg potessero fare bella mostra di sé in tutte le forme: ecco là quello a cupola con la sommità arrotondata, quello a pinnacolo irto di cuspidi di ghiaccio che pare trasparente, quello a zeppa con un fianco ripido da un lato e un fianco inclinato dal lato opposto, quello a bacino di carenaggio, l’iceberg che ha subito una erosione formando una fessura a forma di U oppure un canale, quello a blocco con i fianchi ripidi e la superficie piatta, diverso da un tabulare perché la sua forma è più simile a un macigno monolitico che a una tavola. E poi, ecco là il più bello e spettacolare in assoluto, quello che ho fotografato a raffica e certamente metterò come sfondo del dekstop del mio PC: un grande arco di trionfo, tutto di ghiaccio che sembra alabastro grazie ai raggi del sole radente, si apre sul mare blu quasi a celebrare l’incontaminata unicità dell’ambiente.
Ulv apre la bocca e libera la mia mano, l’apre per spalancarla in uno sbadiglio omerico. Non deve fare altro per significarmi che l’ho proprio annoiato: se avesse il dono della parola mi direbbe di certo che gli ho rotto i…. Quando richiude la bocca mi dardeggia un’occhiata delusa, si volta e trotterella lemme verso i compagni di muta. -Ehi!…- lo chiamo ma è finito il tempo di sosta: mangiato, bevuto, chiacchierato e, soprattutto, fotografato, il gruppo di viaggiatori ha voglia di tornare e i musher riaggregano i cani e agganciano le mute alle slitte. I cani si sono riposati ed hanno voglia di correre, i musher li trattengono a malapena per il tempo che ci vuole a noi viaggiatori per sistemarci scomodamente sulle slitte. Poi partono tirando con forza e ben presto corrono a rotta di collo sul ghiaccio, giù per Blæsedal, la valle che soffia, come se avessero fretta di tornarsene a casa, a Qeqertarsuaq.
Dalle slitte alle motoslitte: il giorno seguente, con il mezzo motorizzato che caratterizza il traffico su Disko, abbiamo risalito il ghiacciaio Lyngmarken, un percorso che attraverso aspri canyons di ghiaccio, innevati da neve fresca, ci ha permesso di raggiungere la cima del ghiacciaio a 900 metri di altitudine. Qui l’occhio spazia sulla Baia di Disko. Lo spettacolo degli iceberg che riempiono la baia, emergendo dal pack che qua e là si frantuma, cambia continuamente a seconda della rifrazione della luce che a sua volta cambia continuamente in funzione di un tramonto che sembra interminabile ed infatti lo è, giacché il sole resta immobile per metà immerso nella linea dell’orizzonte come fosse un iceberg di fuoco.
“Un mondo di fiaba…” penso senza troppa fantasia e mi vien da sorridere perché sono certo che se avessi detto una banalità simile a Ulv… quel cagnaccio burbero mi avrebbe di sicuro morso la mano.
Alla fine lasciamo Disko per tornare ad Aasiaat nello stesso modo in cui siamo arrivati: su un elicottero passeggeri perché la banchisa, ancora solida, non consente la prevista traversata in battello. Quando siamo arrivati, Qeqertarsuaq, vista dall’alto con le sue casette multicolorate sparse sul ghiaccio, mi era apparsa come una distesa di canditi immersi nella glassa di una torta. Adesso, nel decollo, più da vicino, pare proprio un panettone spolverato di zucchero.
Aasiaat si trova su un piccolo arcipelago della baia, a ridosso della costa: lì c’è l’aeroporto che consente il collegamento con le varie cittadine groenlandesi e con Kangerlussuaq, che è uno degli aeroporti internazionali della Groenlandia.
L’elicottero vola basso sulla banchisa. Il viaggiatore che siede accanto a me recrimina sul fatto che non s’è vista balena.
-Ma poi perché si chiamano Balene Franche?- chiede, come se ci pensasse per la prima volta.
-Sono stati i balenieri a chiamarle così…pensavano che fossero le balene “giuste” da cacciare… per via della bassa densità del loro strato di grasso queste balene da morte galleggiano, le altre specie di balena no. Sono stati i Baschi i primi a cacciare la Balena Franca…
Mi accorgo che non mi ascolta, il rumore dell’elicottero ha agito su di lui come un sonnifero. Riporto lo sguardo sul pack che sfila sotto il finestrino: si sta spaccando, tanti pezzi di tante forme diverse, naturali composizioni artistiche, mi paiono craquelure, le screpolature naturali che si producono sulla superficie di pitture a olio o nello smalto delle ceramiche.
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