Cattura e intimorisce, la calotta glaciale che incatena l’immenso cuore della Groenlandia. Incombe a poche decine di chilometri dai villaggi appollaiati sui ricami dei fiordi. E gela di paura l’anima degli inuit. Perché là – nell’inlandsis che è silenzio senza vita – soffiano gli spiriti che tu, piccolo uomo, non puoi sfidare nella lotta con la grande natura.
Suggestioni. Sono il sapore del vagabondare. E in questo viaggio verso la Baia di Disko scivolano all’interno della costa occidentale sul grigio della morena, giù fra rocce e canali fino alle prime onde dell’inquietante mare di ghiaccio. Loro, i miei compagni, scendono ad assaggiare la calotta, la calpestano, forse l’accarezzano. Io no, ho le mie fisse e sul ghiaccio non ci cammino. Ma immaginare si può. Oltre le striature scure che sporcano le rive di quel mare, immagini il bianco immacolato che inquieta gli inuit. Ci hanno lasciato la vita uomini e cani, guide ed esploratori, come il tedesco Alfred Wegener che in Groenlandia inseguiva le prove della Deriva dei Continenti. Nel novembre 1930 lo trovarono sotto la neve <cucito in due fodere di sacco a pelo>, così racconta Jo Lendle nel suo libro ‘Una terra senza fine’. Se n’era andato in un delirio di formiche: <Formiche bianche, di un bianco luccicante, formiche di neve…>.
Le suggestioni rimbalzano nelle lande deserte e sui laghi, lungo il percorso che da Kangerlussuaq conduce a tu per tu con la calotta distesa sull’ottanta per cento dell’isola. Al di là dei finestrini del 4×4 color amaranto sfila la tundra delle renne e dei buoi muschiati, poi ti giri e vedi i ghiacci sfumati di Artico. Ti rinfranchi, dopo il benvenuto in Groenlandia affidato all’aeroporto di Kangerlussuaq. Dai primi anni Quaranta e in tempi di guerra fredda, la pista nel nulla ha servito una base militare americana ed è ancora il centro di un villaggio con qualche casa, un lodge (si chiama ‘Polar’, ovvio) e un’aria d’abbandono che si trascina nei toni del marroncino. E’ la foto di quando eravamo là, ad agosto. No, Kangerlussuaq non è da cartolina. I colori sono a duecentocinquanta chilometri più a nord: a Ilulissat, neppure cinquemila abitanti e un su e giù di case rosse-blu-verdi-viola affacciate sulla Baia di Disko, a trecento chilometri sopra il Circolo polare. Anche la frontiera immaginaria del Grande Nord è ebbrezza: l’acchiappi in volo perché la grande isola di ghiaccio non ha asfalto, ha solo cielo e mare.
Rosso con la coda a pois bianchi (i colori della bandiera), l’aereo dell’Air Greenland atterra sui quaranta chilometri di poesia del Kangia Icefjord, il fiordo di Ilulissat e dell’attivissimo Sermeq Kujalleq che regala iceberg agli occhi, ai tramonti, alle balene, a te che nell’estate boreale non vedi mai il buio. Sono passate le nove quando la barca che ci cullerà fra le montagne di ghiaccio lascia il porto dietro lo stabilimento della Royal Greenland, la compagnia che lavora e commercializza halibut, gamberetti, merluzzi pescati da una flotta di ricchi pescherecci (i loro padroni se la passano bene, così raccontano a Ilulissat). Se di giorno basta un pile, nella notte di luce ci si copre dalla testa ai piedi, ma i guanti non ce la fanno a bloccare il clic sulle gigantesche sculture che il tramonto illumina di rosa, oro, arancio. Quando poi siamo al clic sulle balene… Loro, le megattere, arrivano una dopo l’altra nel silenzio irreale. <Whale>, sussurra il ragazzo della barca indicando un intreccio di iceberg. Ma la luna di miele nei colori della baia è con due, tre, quattro, cinque balene. Quante sono? Guardi davanti, a sinistra, a destra, ti sembra di contarne di più nell’acqua che ribolle. Parlano, le megattere. Gridano, perché la notte è solo loro. Ti chiamano e ti gelano. Respirano fortissimo e quasi ti atterriscono. Ma giocano. Mandano spruzzi dorati sotto il cielo d’oro. Sparano code da urlo, e ti salutano.
Gli iceberg vengono a trovarci sotto la terrazza dell’albergo (guarda caso si chiama Icefjord). Ne ho uno piccolo e ballerino davanti alla finestra della camera. Ma la visione da non credere è all’imbocco del Kangia affogato in un’incredibile cordigliera di ghiaccio. E’ figlia dell’instancabile Sermeq Kujalleq e si fa corteggiare in attesa di scivolare lungo il fiordo per poi avventurarsi nell’oceano. Lo spettacolo si apre davanti a uno sperone al termine di una passeggiata nella valle di Sermermiut, dove passavano gli inverni sotto terra le tribù inuit delle grandi migrazioni. Il permafrost trasuda, e sotto il camminamento in legno la tundra respira su distese di piccoli fiori gialli e rosa mischiati ai batuffoli del cotone artico. Gli iceberg scolpiti in azzurro non ti lasciano un istante, felici di stupire e di raddoppiare specchiandosi nell’acqua.
Il Sermeq Kujalleq ha un fronte di oltre dieci chilometri con il lato meridionale a portata di elicottero. Si atterra sulla morena, e a due passi fra i detriti ecco le onde gelate. Mica si prende come una normale gitarella, l’escursione su un ghiacciaio. Ma mi viene da pensare all’Alaska, all’atterraggio del Piper nell’accecante splendore all’ombra del Denali, e per un attimo la Groenlandia si appanna. Quando però l’elicottero sorvola la baia, incontra due balene che nuotano laggiù, sfiora la nebbia che vela di rosa il fiordo e i suoi iceberg… archivio i confronti e la pace è fatta.
L’Eqi Sermia è una vertigine azzurra. E’ il ghiacciaio che si staglia a ottanta chilometri a nord di Ilulissat e rompe il silenzio con il boato dei blocchi che lo abbandonano attirati dal mare. Le cinque ore di navigazione fino al suo fronte sono una galleria di cupole, pinnacoli, fiori, nastri che sfilano nel blu davanti alla punta orientale dell’isola di Disko. E quando si avanza nel pack è come violare una magica solitudine. L’Eqi è lì. Si fa contemplare anche dal remoto rifugio dove passiamo la notte: un grappolo di casette spruzzate sulle rocce sotto un cielo che più artico non si può. E in basso, dove attracca la barca che ti catapulta su una passerella fino al bordo del dirupo, due foche gentili regalano un’occhiata.
A Ilulissat siamo ormai di casa. Un paio di ristoranti con halibut e bue muschiato sempre in agguato. Le staccionate con dietro le slitte e i giochi dei bambini. I cani alla catena nelle cucce ai margini della città. Il porto dove i pescatori preparano le esche in guanti e camice (altro che pesca in fondo ai buchi nel ghiaccio). C’è anche un emporio da grande freddo: giubboni, berretti, stivali per l’inverno in picchiata sotto lo zero. E un laboratorio di souvenir in osso di animali polari: sibila il trapano e, anche per l’odore, ti senti con un brivido sulla poltrona del dentista.
La Groenlandia d’altri tempi è racchiusa nella casa-museo di Knud Rasmussen, l’esploratore danese delle grandi spedizioni nel vuoto della natura e nel profondo dell’anima inuit. Chissà cosa nasconde l’anima di quell’anziano signore seduto su una panchina davanti alla chiesa evangelica. Tiene stretto sulle ginocchia un sacchetto di plastica e con gli occhi a fessura guarda il fiordo. Forse vede la cultura inuit sciogliersi nel caldo del globo. Oppure scruta alla ricerca di un futuro per i suoi nipoti. <Se vanno a studiare in Danimarca, i giovani non tornano più; a lavorare nel turismo ci siamo solo noi>, dice uno studente danese che, come tanti suoi connazionali, vola in Groenlandia per la campagna estiva. <It’s stupid>, aggiunge serio. Sarà. Ma dopo? Per i giovani inuit, cosa resta dopo l’estate ingoiata dal buio?
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