Il polo nord è sempre stato per me una specie di ossessione, come capita a diverse persone. Sapevo che, prima o poi, sarei riuscito a metterci piede, almeno una volta nella vita. E sicuramente –pensavo- tutto ciò sarebbe avvenuto prima di mettere piede in Antartide: nella mia personalissima “scala” dei desideri, il polo nord veniva prima. Ma, come si sa, spesso le cose nella vita vanno diversamente, e le occasioni che si presentano cambiano quelli che potevano essere i tuoi programmi, anche se di massima.
Così, venne prima l’Antartide. Era il 2003. Il polo nord lo avrei toccato tre anni dopo, nel 2006.
Ebbi infatti l’occasione di trascorrere due settimane nella base italiana antartica, per realizzare un reportage per “Speciale TG1” sulla spedizione di quell’anno.
Gestita come sempre dal PNRA, Programma Nazionale di Ricerca in Antartide, a quel tempo la base italiana si chiamava ancora “Baia Terranova”, dal nome del luogo dove era stata costruita. Solo un po’ più tardi sarà dedicata all’indimenticabile ingegner Mario Zucchelli, vera “anima” delle varie missioni di quegli anni. Proprio con Zucchelli ebbi i primi contatti, per organizzare al meglio con lui la mia trasferta: studiammo quali delle tante attività e dei tanti esperimenti italiani in programma in Antartide quell’anni sarebbero stati meritevoli di riprese televisive e quindi di approfondimento, e stabilimmo i dettagli logistici del mio viaggio assieme al telecineoperatore Rai Enrico Bellano.
Furono giorni abbastanza frenetici, segnati dalle mie visite ripetute al centro Enea della “Casaccia”, una trentina di chilometri a nord di Roma, per incontrare Zucchelli e i suoi principali collaboratori.
Finalmente arrivò il giorno della partenza, a novembre 2003: saremmo arrivati alla base italiana dopo un lunghissimo viaggio aereo, proprio nel culmine della primavera nell’emisfero sud. Praticamente facemmo in aereo mezzo giro del pianeta –con scalo tecnico a Los Angeles- per raggiungere la Nuova Zelanda. Da lì sarebbe partito l’aereo cargo del PNRA che ci avrebbe fatto atterrare alla base italiana, proprio sul “lato” del continente antartico che guarda verso l’Oceania.
Partimmo dalla cittadina di Christchurch, già vestiti con le pesanti tute rosse che avremmo indossato durante i nostri spostamenti esterni alla base: non fu piacevolissimo, dato che a Christchurch la primavera era già molto avanzata, la temperatura medio alta, e dentro quelle tute il caldo si faceva sentire… Ma era obbligatorio salire sull’aereo proprio con quelle tute, che avrebbero permesso ai soccorsi di individuarci meglio in caso di incidente: quando seppi di questo particolare, mi ricordo ancora che feci dei discreti scongiuri…
L’aereo che trovammo in Nuova Zelanda per l’ultima tratta del nostro lunghissimo viaggio era una specie di C-130 cargo, forse un po’ più piccolo dei nostri, che il PNRA affittava in Nuova Zelanda per tutta la durata della spedizione. Ricordo ancora il suo colore grigio, con il bello stemma circolare blu e bianco di “ItaliAntartide”. Nella parte anteriore della carlinga erano state fissate alcune file di sedili, dove prendemmo posto assieme a scienziati, ricercatori e personale vario di CNR, Enea, Università e altri istituti, che andavano a dare il cambio a chi -con il nostro stesso aereo- avrebbe iniziato il suo viaggio di ritorno verso l’Italia, alla fine del periodo di missione.
Il resto della carlinga era occupato dai rifornimenti per la base, una colossale montagna di equipaggiamento vario, viveri, bevande, strumenti, il tutto tenuto assieme e racchiuso in una specie di grande rete.

Il viaggio durò diverse ore, prima sull’oceano a sud della Nuova Zelanda, poi sui primi ghiacci dell’Antartide, in direzione della base italiana. I piloti si collegavano via radio in continuazione con la base per conoscere lo stato del meteo: se un’improvvisa bufera avesse reso pericoloso l’atterraggio a Baia Terra Nova, l’aereo avrebbe fatto rotta di ritorno verso la Nuova Zelanda. Ma tutto questo era possibile fin tanto che non si superava la cosiddetta “linea del non ritorno”, nome un po’ sinistro ma che rende bene l’idea: poco oltre la metà del lungo viaggio dalla Nuova Zelanda all’Antartide, infatti, si è ormai troppo lontani da Christchurch, e sull’aereo non c’è più il carburante necessario per tornare indietro. Quindi, se si viene avvertiti di una tempesta sulla zona di atterraggio quando si è oltrepassata questa “linea di non ritorno”, si deve per forza andare avanti: o si spera che, nel frattempo, la tempesta si plachi un po’ e si prova quindi ad atterrare alla base italiana, oppure si ha solo un’altra possibilità, rappresentata dalla base americana di Mc Murdo, distante un centinaio di chilometri dalla base italiana in direzione sud, e raggiungibile con le ultime scorte di carburante. Infatti a Mc Murdo gli atterraggi possono essere effettuati anche in condizioni difficili: gli americani attrezzano ogni anno un vero e proprio aeroporto sul mare ghiacciato, con tanto di torri di controllo semoventi e –all’occorrenza- anche con le strumentazioni necessarie ad un atterraggio in condizioni meteo difficili. Quindi, in caso di maltempo alla base italiana, o si atterra a Mc Murdo o ….. si atterra a Mc Murdo. Non ho mai voluto pensare, durante il mio viaggio, se anche su Mc Murdo si fosse scatenata una tempesta fortissima……
Ma tutto andò bene, il viaggio fu bellissimo, e provai una grande emozione quando –nella parte finale- cominciai a vedere, dall’oblò dell’aereo, l’immensa distesa dell’Antartide ad occhio nudo per la prima volta in vita mia.
Gran parte delle basi scientifiche di molti Paesi sono state costruite lungo le “coste” di questa isola gigantesca che è l’Antartide: tutto il resto del continente bianco è pressochè disabitato, tranne rarissime eccezioni, costituite da pochissime basi “interne”, tra le quali quella americana, sistemata proprio sul punto esatto dove è il polo sud. La base italiana si trova –come detto- sulla Baia Terranova, nella zona della grande barriera di Ross.
Per capire com’è fatta, e soprattutto in quale contesto paesaggistico è la base italiana, basta immaginare il golfo di Napoli totalmente ghiacciato e ovviamente disabitato, senza il minimo segnale di presenza umana. Una larga baia, con il mare ghiacciato, dove i tecnici italiani –il giorno dell’arrivo del C-130- spianano con i gatti delle nevi una specie di pista lunga alcune centinaia di metri, segnalata da alcuni grossi bidoni vuoti ai lati e all’occorrenza anche da qualche “fumogeno”, e dove atterra l’aereo proveniente dalla Nuova Zelanda con frequenza bi-settimanale. Un entroterra bianco e deserto, prima collinoso poi montagnoso. E sullo sfondo anche un vulcano, come il Vesuvio, ovviamente anch’esso coperto dai ghiacci.
La base italiana è su un piccolo promontorio roccioso, una specie di “terrazza” su questo ampio golfo di mare ghiacciato. C’è il fabbricato principale, più grande degli altri, dove sono sistemate le camerate per dormire (si dorme in letti a castello, in genere in 4 persone per camera) i bagni comuni, la sala dove si mangia con la cucina e i vari magazzini alimentari, un paio di piccoli locali dedicati al tempo libero, e soprattutto i laboratori, dove lavorano quotidianamente scienziati e ricercatori. Il tutto è sormontato da una piccola torre di controllo, che gestisce tutti i mezzi in movimento, compresi i 4 elicotteri neozelandesi presi a noleggio ogni stagione dal PNRA. Attorno all’edificio principale, altri piccoli depositi e centrali varie, anche loro dipinti in azzurro e con il tetto color aragosta, due colori molto ben visibili nel deserto bianco antartico. Ci sono anche due enormi capannoni chiari, dove sono ricoverati i vari mezzi di trasporto di terra, e dove vengono effettuati i lavori manuali necessari alla vita della base. Poco distanti, tre piazzole destinate al decollo e all’atterraggio degli elicotteri, e due piccole “baite” in legno, dedicate al tempo libero e allo stare in compagnia.

Ho passato due settimane nella base italiana in Antartide. Il tempo era scandito soprattutto dall’attesa di salire su un elicottero, per seguire e riprendere le varie attività degli scienziati nell’immenso e disabitato deserto bianco circostante.
Abbiamo volato molto con gli elicotteri, ed abbiamo avuto modo di atterrare in diversi posti, tutti nel raggio di un centinaio di chilometri dalla base.
Quando vedi posti come l’Antartide per la prima volta, le parole possono non bastare. Le emozioni e le sensazioni si accavallano, non fai quasi in tempo ad appuntarle su un taccuino, o a provare ad imprimerle in un angolo della tua memoria. Sia seguendo la costa, sia volando verso l’interno, verso l’immenso “panettone” che costituisce la calotta antartica, si viene presi da un misto di meraviglia e inquietudine. E’ difficile avere l’occasione di osservare migliaia di chilometri quadrati di bianco che si perdono all’orizzonte, intervallati da picchi, ghiacciai, crepacci. Pensando che tutto questo rappresenta uno dei posti più selvaggi, più desolati e più estremi del pianeta. Che il ghiaccio sia “profondo” addirittura alcuni chilometri, e che abbia praticamente ricoperto gigantesche catene montuose, oltre a migliaia di valli e spianate. E con al centro uno dei punti geografici per eccellenza, il polo sud. Ricordo quando, con l’elicottero, ci posammo, un giorno, sul plateau all’interno, ad una cinquantina di chilometri dalla costa e dalla base italiana: attorno a me, 360 gradi di orizzonte perfettamente piatto e bianco; sopra, una calotta di uno spettacolare blu molto intenso.
Oppure quando prendemmo un piccolo aereo Twin Otter per volare più lontano, fino alla base americana di Mc Murdo. Sempre sulle rive del mare ghiacciato, ma in una grossa insenatura, trovammo un vero e proprio “paese”, fatto di edifici, laboratori e capannoni metallici, con un’atmosfera ben diversa dal piccolo avamposto rappresentato dalla base italiana. Solo le dimensioni dell’ “aeroporto” erano triplicate rispetto a dove eravamo atterrati a Baia Terra Nova, alla base italiana: una pista lunghissima, larghissima, perfettamente attrezzata sul ghiaccio, e circondata da ogni tipo di ausilio tecnico per decolli e atterraggi. Come detto, la base americana di Mc Murdo si trova all’inizio della grande barriera di Ross, nel punto esatto da dove partì la tragica spedizione per la conquista del polo sud da parte dello sfortunato capitano inglese Robert Falcon Scott, impegnato nella sfida con il norvegese Roald Amundsen, che ebbe la meglio attraversando la grande barriera partendo dall’altro lato con cani e slitte. Inutile dirlo, ma fu per me un’emozione indimenticabile quando andammo a riprendere la capanna di Scott, ancora in piedi e in perfetto stato, che gli inglesi avevano costruito come base operativa della loro spedizione, e nella quale trascorsero molti mesi prima di lanciarsi verso il polo: il terribile freddo antartico, ma secco, ha conservato quasi intatti il legno, gli interni, il mobilio essenziale, quintali di scatole e barattoli alimentari. Aggirarsi sul quel pavimento scricchiolante, e sapere chi lo aveva calpestato una novantina di anni prima, sapere che in quel luogo era stata scritta una delle pagine più importanti, eroiche e drammatiche dell’esplorazione polare, mi portò –lo dico senza la minima vergogna- molto vicino alla commozione.

Quando ripartimmo, durante il decollo da Mc Murdo fissai a lungo la piatta distesa della barriera di Ross: lo sguardo si perdeva a centinaia di chilometri, e tra le nebbie dell’orizzonte non si vedeva la fine di questa spianata affascinante e mostruosa. Pensai al coraggio di Scott e dei suoi uomini, che si lanciarono in quella direzione solo per toccare per primi il polo sud, affrontando fatiche e disagi spaventosi, e pagando con la vita –sulla via del ritorno- il loro tentativo. Eroi polari.
Ricordo anche quando atterrammo con l’elicottero in una grande spianata, ed avanzammo a piedi verso un milione di pinguini: il suono incessante dei loro richiami, i loro movimenti a tratti buffi, anche l’odore, diciamo così, “pungente” dei loro corpi.
Si potrebbe continuare per pagine e pagine. Ma basta solo un’emozione: è un luogo che ricorderò per tutta la vita, con la sua dimensione grandiosa e forse inconcepibile se non la vedi di persona, i suoi spazi infiniti, e quella sensazione di lontananza, solitudine, avventura ed inquieta emozione che solo le zone polari possono regalare.
Specie a noi, che abbiamo la fortuna di esserne irrimediabilmente innamorati.
Buongiorno,mi chiamo Guelpa Fausto,ho 40 anni,risiedo a Soprana in Fraz Molinengo n. 39 in prov. di Biella.sarei molto interessato a partecipare a una spedizione in Antartide alla Stazione Mario Zuccadelli.cortesemente saprebbe darmi delle informazioni per L’inserimento?grazie 1000!
Buongiorno Fausto, al momento non abbiamo in programma spedizioni alla stazione Zucchelli, ho comunque inserito il suo indirizzo nella nostra mailing list. Grazie.
Sono vincenzo cupolillo vincenzocupol69@yahoo.it che dire stupenda esperienza non a portata di tutti anche per me la stessa cosa almeno una volta nella vita e grazie che mi avete dato la possibilità di essere lì almeno virtualmente
Buongiorno Vincenzo, grazie per il suo gentile commento, a presto con nuovi articoli!
sono intressatto a poter fare una spedizione in antartide sono diplomato perito elettronico ho fatto l’elettricista nella ditta di mio fratello per 5 anni, sono radiamatore ,,sono un volontario di protezione civile ,sono operatore radiodio in sala operativa regionale lazio,e sala italia dipartimento quando serve