Antefatto: 19 agosto sono le 12.30, piove (premonizione), siamo in un alpeggio in Valle d’Aosta sotto il Mont Fallere, mentre aspetto il casaro ricevo la telefonata di Piero: “Ciao Massimo, tutto bene? Ci vediamo giovedì per le 10.30 all’aeroporto di Malpensa”. “Certo, tutto bene, a giovedì”, gli rispondo. Poche parole, sufficienti.
giovedì 22 agosto 2019
Andrea e Mirella mi accompagnano all’aeroporto, ho con me una borsa frettolosamente preparata il giorno precedente e uno zaino appropriato con tutto l’occorrente per la fotografia. Decollo alle 12:45 con qualche decina di minuti di ritardo, dopo uno scalo a Monaco di Baviera giungiamo in serata ad Oslo dove pernottiamo all’hotel Radisson Blu nei pressi dell’aeroporto. Spesse, bianche e benevole pianure di nuvole mi hanno nascosto gran parte del paesaggio alpino, ma ampi squarci mi hanno permesso di riconoscere il gruppo delle Grigne, luogo dei miei allenamenti e le vette dell’Oberland Bernese meta di molte avventure. Evidente è la differenza del paesaggio tra la Pianura Padana, ormai totalmente antropizzata, con le vaste distese disabitate della Germania e della Norvegia: i paesi, con le case dai tetti ordinati ed omogenei, sono belli da vedere e non si disperdono disordinatamente, piccole chiazze rosse tra enormi macchie verdi dove la natura domina. Ordine e disordine. La cena permette di conoscerci, cerchiamo di memorizzare i nomi, anche se per giorni Patrizia sarà anche Ornella ed Elena sarà Laura. Mi accorgo della mia, fortunatamente piccola, dimenticanza: ho scordato la carta di credito, come farò a pagare il gustoso halibut che mi hanno servito? Scopro così che i norvegesi non gradiscono gli euro, ma fortunatamente mi soccorre un compagno di viaggio. Grazie Renato.
Il re dell’Artico, l’orso polare è il simbolo delle Svalbard.
venerdì 23 agosto 2019
Camera confortevole, dormo bene, ma questa non è una novità perché riuscirei ad addormentarmi su qualsiasi letto ed in qualsiasi condizione. Quando si chiudono gli occhi è tempo di sonno e di sogni, sogni che finalmente oggi diverranno realtà. Alle 7 abbondante e varia colazione, pochi passi per raggiungere l’aeroporto, imbarcare le borse, far visionare il passaporto e salire sull’aereo che ci porterà a Longyearbyen. Arriviamo poco prima di mezzogiorno allo Svalbard Lufthavn situato a cinque chilometri dalla città, ci attendono nuvole basse ed umide, da poco una pioggerellina è cessata. Il nastro trasportatore che ci consegna i bagagli è sorvegliato da un maestoso orso bianco. Franco sorride stringendo lo zaino e la sacca. Preoccupato e turbato ci attendeva ad Oslo con Flavio, suo figlio. Entrambi partiti dall’Olanda i suoi bagagli impazienti di raggiungere le Svalbard non hanno fatto scalo nell’antica Kristiania. All’esterno, un cartello con le distanze dalle principali capitali mondiali e dal Polo Nord è oggetto di numerose fotografie. Siamo a soli 1300 km dal Polo Nord e 3700 km da Milano! Saliamo su un minibus che in pochi minuti, ci conduce al porto dove facciamo conoscenza con il nostro hotel galleggiante, l’Arctica II, una barca a vela e a motore lunga 19 metri, che per giorni ci permetterà di conoscere parte di queste meravigliose isole. Lasciamo i pesanti bagagli sulla banchina e a piedi ci dirigiamo verso la “città”. Nel 1906 l’imprenditore americano Jonh Munro Longyear aprì la prima miniera, costruì edifici e chiamò l’abitato Longyear city. Nel 1916 la compagnia di stato norvegese, la Store Norske Spitsbergen Kullkompani rilevò le miniere dall’Artic Coal Company e l’insediamento fu rinominato Longyearbyen. Oggi tutte le miniere, ad esclusione della numero 7 nella valle di Adventalen, sono chiuse e rimangono come monumenti surreali intorno all’insediamento urbano. Visitiamo lo Svalbard Museum, piccolo, ma interessante con antichi reperti, animali imbalsamati, ricostruzioni e diorami ad illustrare i molteplici aspetti delle Svalbard: storia, geologia, fauna. Per accedere al museo così come in molti altri edifici pubblici è tradizione togliersi le scarpe, gli stivali ed indossare delle ciabatte: usanza che ha vecchie origini volta ad evitare che si portasse all’interno degli edifici sabbia, terra e fango mescolati con la polvere di carbone presente dovunque. Vicino al museo si trova l’università (UniS) i cui studi si concentrano sulla ricerca artica nei campi della geologia, geofisica, biologia e tecnologia. I corsi sono tenuti in inglese ed è frequentata da più di 300 studenti. Siamo liberi di girovagare per negozi sino alle 17.00, orario di ritrovo presso la Statua del Minatore situata sulla via principale. Tutti gli edifici sono recenti (la città fu distrutta dai tedeschi nel 1943), molto simili gli uni agli altri, poco caratteristici dal punto di vista architettonico, poco attraenti, qui si bada alla funzionalità, ma c’è tutto: ufficio postale, banca, negozi di articoli sportivi, supermercato, bar, ristoranti etnici, alberghi, scuola, asilo, piscina, farmacia ed un piccolo ospedale. Le strade hanno numeri al posto dei nomi. Tutti gli edifici, per la presenza del permafrost, non hanno fondamenta, sono rialzate proprio come le palafitte anche se non in tutti è evidente, così come le tubature del gas, della luce e delle acque sono esterne, non sono interrate. Mountain bike e fatbike, tutti rigorosamente indossano il casco, molte le automobili, più di quanto pensassi, che freneticamente e lentamente (il limite in città è di trenta chilometri all’ora) percorrono i pochi chilometri di strade, diversi parcheggi con centinaia e centinaia di motoslitte. Immaginavo vi abitassero solamente “alti e biondi vichinghi” e “dolci kvinner dagli occhi azzurri” invece i 2200 abitanti di Longyearbyen provengono da più di cinquanta Paesi differenti: sono perfino entrato in un supermercato tailandese! Ceniamo in un locale caratteristico, Kroa, vecchio stile, atmosfera rustica, copia di una baita di cacciatori di pellicce: appese alle pareti in legno fotografie in bianco e nero o seppia, sia originali che riproduzioni e pelli di animali.
Fuglefjord panorama.
Veniamo a conoscenza che il “water maker”, il dissalatore della barca non funziona, pertanto le docce ed il consumo di acqua dovrà essere limitato all’essenziale. Vabbè, non siamo contenti, ma certamente non siamo venuti alle Svalbard per lavarci. Inoltre, come già Piero ci aveva anticipato durante la cena ad Oslo, dopo aver consultato la carta dei ghiacci polari (Norvegian Meteorological Institute), non sarà possibile raggiungere la meta prefissata perché forti venti da nord hanno portato ghiaccio (very close drift ice) sino a ridosso della costa dell’isola di Nord-Est, avvenimento non usuale durante questa stagione. Tuttavia la deriva del ghiaccio muta rapidamente: la situazione di questa sera potrebbe mutare nell’arco di poche ore. Peccato, ci tenevo navigare lungo quelle coste, scendere a terra, meravigliarmi con tutti i cinque sensi e finalmente “toccare” i luoghi dove sono accaduti eventi storici a me cari, letti e studiati su decine e decine di libri. Natura e storia, queste sono le motivazioni del mio viaggio. Fuori, il sole illumina i nostri passi verso il porto, posiamo piedi e bagagli sulla barca, ognuno nelle proprie cabine. Con me Franco e Flavio, non li conosco, ma “fiuto” che certamente non avrò problemi di condivisione e così sarà sino al termine del viaggio. Piero ci presenta Knut, il comandante, il nostro skipper e sua moglie Inger, cuoca ed aiuto tuttofare: norvegesi, abitano da molti anni a Logyearbyen. Si riveleranno persone competenti, simpatiche, cordiali, mai invadenti. Usciamo dal porto, dall’Adventfjorden e ci dirigiamo verso Trygghamna (il nome significa porto sicuro), una riparata baia dell’Isfjorden, dove trascorreremo la notte. Cerco di vivere il più possibile questo mio sognato viaggio, così questa sera, come in tutte le successive, rimango sveglio sino a ben dopo la mezzanotte ad osservare il paesaggio che mi circonda, ad assorbire e respirare il silenzio, silenzio che avrà sempre il suono delle onde mentre lambiscono la barca e le conversazioni degli uccelli. Osservo la costa, un orso potrebbe gironzolare in cerca di cibo. E’ mezzanotte, da domani il sole, per la prima volta dopo mesi, inizierà a riposarsi prima un poco poi sempre più e calerà sotto l’orizzonte. Intorno a me colori autunnali, paesaggio di alta montagna: vegetazione verde ed arancio, rocce nere e marroni, sabbia, detriti morenici, montagne, vette. Luoghi che ben conosco, ma ora, non mi addormenterò in un bivacco, ma in una cuccetta di una barca. Dove sono? Sono in montagna? Sono al mare? WhatsApp è utile, invio a casa alcune fotografie. Nella baia altre due piccole imbarcazioni ed un veliero. Che bello! Finalmente le Svalbard! Svalbard letteralmente significa “terra dalle fredde coste” così chiamata durante un misterioso viaggio dei vichinghi nel 1194, tuttavia non sappiamo se tale nome fosse riferito alla terraferma oppure al bordo della banchisa polare. Senza dubbio, perché ben documentato, è la loro scoperta durante il terzo viaggio dell’esploratore olandese Willem Barentzs nel 1596, alla ricerca di una via più breve per raggiungere la Cina, durante il quale chiamò l’isola più grande Spitsbergen (montagne aguzze). Da allora queste isole sono teatro di storie di balenieri, cacciatori di pellicce in un primo tempo provenienti dalla Russia (Pomori) poi dalla Norvegia, infine minatori. Con il trattato di Versailles del 1920 ed entrato in vigore nel 1925, l’amministrazione e la legislazione di queste isole viene affidata alla Norvegia: il nome Spitsbergen rimane ad indicare l’isola principale e per Svalbard si intende l’intero arcipelago con le altre isole maggiori Nordaustland, Edgeoya, Barentsoya e quelle minori e remote. Il trattato concede diritti a tutte le nazioni firmatarie ed ai loro cittadini: residenza, apertura di attività commerciali, caccia e pesca.
L’insediamento di Ny Alesund, Baia del Re.
sabato 24 agosto 2019
Sveglia alle 7.30, sarà così per tutte le mattine, così come la colazione dovrebbe essere per le 8.00, scrivo dovrebbe perché dopo i primi giorni di buona disciplina, alcuni miei compagni di viaggio dedicheranno al sonno qualche momento in più. Pur di conoscere, osservare e ricordare il più possibile sarò a volte sembrato iperattivo con quel mio entrare, uscire frequentemente dalla cabina per fotografare e per imprimere nella mente ogni immagine che la natura mi offriva. Lasciamo la baia: buon viaggio e buona permanenza ci gridano le sterne dagli scogli. Alla nostra sinistra ci accompagna la lunga isola di Prins Karl Forland, scura, cupa per via di dense nuvole nere, la spiaggia si vede a mala pena, siamo nello Forlandsunde. La costa est è illuminata, due mondi differenti distanti poche centinaia di metri, immagino le vette delle montagne parzialmente offuscate da bianche dense nuvole disponibili tuttavia a lasciare ampi squarci alla luce. Knut ancora la barca e con due viaggi in gommone scendiamo in prossimità di Poolepynten. Ogni discesa a terra segue un preciso e ripetitivo rituale: dopo aver indossato i rossi salvagenti e gli stivali che ci permetteranno poi di fare i primi passi in acqua dal gommone alla riva, tramite una scala scendiamo dalla barca sul rosso-arancio Mercury, Piero prende con sé il fucile (il rischio di incontrare l’orso bianco può verificarsi in qualsiasi momento), Knut sbarca il primo gruppo sulla riva poi ritorna alla barca per trasportare i compagni rimasti. Già in lontananza vediamo il motivo dello sbarco: pacifici e sonnolenti trichechi ci attendono, a volte, curiosi, alzano la testa. Li ho visti solo nei documentari, sono emozionato e felice, numerose fotografie li ritraggono. Passeggiamo senza una meta precisa, camminiamo sulla spiaggia di ghiaia, ciottoli, sabbia ed una grande quantità di legname, di tutte le dimensioni, arrivato sin qui dalla lontana Siberia trasportata dalle correnti marine. Vertebre di balena e trichechi ci accompagneranno su molte spiagge durante tutto il viaggio. Cammino per la prima volta sulla tundra artica, le impronte permangono. Molte sterne volano sopra di noi, minacciose, ci avvertono di mantenere una adeguata distanza dai loro nidi.
Tramonto nell’isfjord.
Torniamo a bordo per il pranzo, peccato sarei rimasto a terra per ore. Inger si dimostrerà un gran brava cuoca, piatti squisiti ed abbondanti, troppo generosi. Il cibo che avanziamo andrà in mare a nutrire i pesci: “to the fish”. Impariamo anche a schiacciare le lattine vuote delle bibite, birra o acqua o altro: si posizionano verticali sul pavimento e con un colpo secco di suola si appiattiscono, avremmo potuto farne una competizione. Avanziamo verso nord ed entriamo nella Baia del Re, Kongsfjorden. Una rara balena azzurra ci accoglie. A destra riconosco Ny Alesund, di fronte a noi lingue di dolci ghiacciai entrano in acqua lasciando al mare piccoli iceberg dalle forme bizzarre: il bianco, il blu e l’azzurro si mescolano a formare una moltitudine di colori. Svea, Dana e Nora, le Tre Corone (Svezia, Danimarca e Norvegia), montagne che dominano il paesaggio poste di fronte all’insediamento, alternativamente coperte dalle nuvole, ci osservano e ci danno il benvenuto nel fiordo il cui nome l’ho letto, visto in fotografia ed immaginato mille e più volte. Da Ny Alesund nel 1926 è partito il dirigibile Norge con Umberto Nobile, Amundsen, Ellesworth ed un equipaggio composto da italiani e norvegesi: per la prima volta nella storia dell’uomo il Polo Nord è stato raggiunto. Sempre da qui nel 1928 è partito per tre viaggi il dirigibile Italia con Umberto Nobile al comando. Durante il terzo sfortunato viaggio, dopo aver raggiunto il Polo Nord, durante il ritorno, il dirigibile si schiantò sul pack. Precipiteranno dieci uomini dell’equipaggio (otto saranno i sopravvissuti al termine degli eventi) con parte della gondola mentre gli altri sei membri della spedizione rimasti sul dirigibile, che riprese quota dopo l’impatto, non saranno più ritrovati. Fu organizzata un’imponente macchina del soccorso, purtroppo non coordinata, caotica e poco collaborante: 1700 uomini impegnati nella ricerca, 14 navi, 20 aerei, 6 nazioni. Una tra le centinaia avvincenti ed affascinanti storie che caratterizzano le esplorazioni/spedizioni polari. Incredibilmente sono proprio qui, nella Baia del Re nome che mi rievoca l’inizio della mia passione per le spedizioni artiche quando anni fa acquistai casualmente in un mercatino di libri usati il volume scritto da Alfredo Viglieri, componente dell’equipaggio del dirigibile Italia. Quanti anni e quante centinaia di libri, da quel giorno, quante righe, capitoli, luoghi ed esploratori nella mia testa e non meno rilevante quanto spazio dedicato in casa per le librerie dovunque presenti. Durante la navigazione Piero ci ha raccontato ed illustrato con immagini gli avvenimenti salienti che hanno caratterizzato la spedizione polare di Nobile e del dirigibile Italia. Mi sono stupito che solamente in pochi si sono documentati, ricordo Dora e Franco, orgoglioso alpino, fortemente coinvolto nel viaggio perché sperava tanto di ripercorrere il viaggio di Gennaro Sora nel 1928 alla ricerca dei naufraghi del dirigibile. Immaginavo che durante il viaggio si parlasse di Polo Nord, esplorazioni, orsi bianchi, condizioni ambientali dell’Artico e della sua importanza geopolitica, invece le chiacchiere erano improntate alla cucina, ai ristoranti ed alla situazione politica italiana. Accidenti, mi sentivo proprio fuori luogo, un orso bianco all’equatore. Sono le 23.00 siamo ormeggiati presso l’isola di Bloomstrandhalvoya. Il sole ancora illumina, scrivo senza l’aiuto della luce artificiale.
A fine agosto i colori sono autunnali.
domenica 25 agosto 2019
Periplo intorno Bloomstrandhalvoya passando di fronte al ghiacciaio omonimo che scende in acqua chiuso da vette alte solamente 800-1000 metri, ma del tutto simili alle alte cime delle Alpi. I repentini cambiamenti climatici sono nell’artico ancor più evidenti e tangibili, così a dispetto del nome “halvoya” (penisola) ci troviamo a navigare intorno ad un’isola perché lo scioglimento del ghiacciaio che la collegava alla terraferma negli anni recenti ha lasciato spazio al mare. Ci fermiamo di fronte Ny London, un vecchio insediamento minerario del 1910 per l’estrazione del marmo dove vi lavoravano una settantina di persone. La roccia estratta risultò di scarsa qualità e la cava fu abbandonata dopo sole tre estati. Restano due baracche di legno (Camp Mansfield è scritto sopra la porta di ingresso di una), alcuni metri di rotaie, caldaie a vapore ed altre attrezzature arrugginite. Alle Svalbard rimangono molti siti di eredità culturale, sono protetti dalla legge e nulla può essere rimosso e neppure spostato. Riceviamo il primo rimprovero da parte di Piero, effettivamente siamo un piccolo gruppo di indisciplinati che piano piano si allontanano l’uno dall’altro dimenticando che un orso polare, nascosto da un avvallamento, potrebbe manifestarsi da un momento all’altro. Oltre al pericolo al quale potremmo esporci è anche fondamentale rispettare le ben codificate regole d’ingaggio: l’uccisione di un orso anche per autodifesa sarà sottoposta ad una accurata indagine atta a valutare se sono state messe in atto tutte le procedure per evitare l’utilizzo dell’arma da fuoco. Infine, ma non meno importante, per nostra colpa, potremmo mettere in pericolo anche la loro vita. Inserito nella “lista rossa” IUCN delle specie in via di estinzione, cacciato sino al 1973, è ora protetto da leggi internazionali. Una caccia limitata e controllata è permessa solo ai nativi della Groenlandia, Alaska, Canada e Russia, anche se purtroppo esiste il bracconaggio. Pertanto dobbiamo rimanere vicini, nulla da obiettare, ma la natura intorno a noi è talmente bella che ci coinvolge e ci fa vagare senza pensieri e paure. Gli ultimi fiori dell’estate artica ancora fanno bella mostra, chiazze verdi, bianche, gialle e viola spiccano nel grigio-marrone delle pietre. Sassifraghe, ranuncolacee ed eriofori colorano la tundra, troviamo perfino funghi alti tre-quattro centimetri. Poco distante, nei pressi di uno specchio d’acqua notiamo numerose oche “faccia bianca”, ci avviciniamo, ma quando la distanza diventa esigua si involano per planare qualche centinaio di metri più a nord. Durante la passeggiata ci imbattiamo in uno scheletro quasi completo di renna corredato di palco ed intorno pelo bianco, soffice. Poco sotto una renna si alimenta, fra poco giungerà la prima neve anche a bassa quota, cercare cibo sarà sempre più difficile e richiederà molte energie. Le cime intorno sono già state visitate da qualche breve e lieve nevicata. Vedo i primi “anelli di pietra”, sono un fenomeno comune nei terreni con il permafrost, la loro formazione dipende dagli intensi e ripetuti fenomeni di congelamento e scioglimento del ghiaccio: durante il congelamento l’acqua si espande in volume ed esercita una pressione sul suolo sino a formare anelli con un diametro fino a tre metri. Salutiamo questa piccola isola, destinazione Ny Alesund situata di fronte a noi.
Tricheco a Poolepynten.
Poche le barche ormeggiate, il periodo delle crociere delle grandi navi è terminato, ora si muovono solo le piccole, meglio così. La “Nuova Alesund” prende il nome della città norvegese Alesund, dove la compagnia mineraria che fondò la città, aveva la sua sede. La città è uno dei più importanti siti nella storia delle esplorazioni artiche, la quasi totalità degli edifici ospita basi scientifiche (tra cui quella italiana del CNR) con il loro personale e sono ben poche le persone che qui rimangono durante tutto l’anno, in ogni caso non ci sono famiglie o bambini che vi risiedono permanentemente. Esiste una sola strada principale che in pochi minuti ci porta al villaggio. Visitiamo il museo: storia dell’estrazione del carbone, delle miniere e dei minatori, storia degli incidenti, filmati relativi alla flora ed alla fauna artica, agli insediamenti umani passati ed attuali. Al piano superiore è visibile una delle numerose bombole contenenti idrogeno utilizzata per il dirigibile Italia. Alle 16.00 apre per noi, unici turisti, il negozio di souvenir. All’esterno la buca per le lettere così ne approfittiamo per spedire le nostre cartoline dall’insediamento abitato (ci sono tuttavia insediamenti militari e stazioni meteo posti a latitudini maggiori) dall’uomo situato più a nord del nostro pianeta. Poco distante il vecchio ufficio postale colorato d’azzurro, ora non più utilizzato, al cui interno sopra un tavolo c’è un timbro: vidimo alcuni fogli di un quaderno che porto nello zaino. Lo stampino reca la scritta “Ny-Alesund 79° World’s Northenmost Community” dietro la quale sono disegnate le Tre Corone Pochi passi ed incontriamo il monumento, un busto, dedicato all’esploratore polare Roald Amundsen. Partendo da Ny Alesund fece un primo tentativo, senza riuscirvi, di raggiungere il Polo Nord nel 1925 con due Dornier-Wal, idrovolanti realizzati in Italia, sorvolò invece il Polo nel 1926 a bordo del dirigibile Norge, morì nel 1928 in un incidente aereo nel tentativo di prestare soccorso ai sopravvissuti del dirigibile Italia: l’idrovolante francese sul quale era imbarcato sarebbe precipitato nel Mare di Barents. Attraversiamo la zona abitata, ci dirigiamo verso il pilone dove il dirigibile Norge (costruito in Italia, chiamato N1, solo successivamente, dopo l’acquisto da parte dell’Aero Club Norvegese, fu denominato Norge) e il dirigibile Italia furono ancorati al loro arrivo dalla lontana Italia in attesa delle loro partenze verso il Polo Nord. Immersi nell’autunno, nelle nuvole basse e grigie camminiamo sul tappeto di muschi e licheni arancione marrone che caratterizza la tundra in questo periodo dell’anno. Ancora un passo e lo tocco! Dopo aver letto decine e decine di libri sui loro viaggi, non avrei mai immaginato di giungere in questo luogo a me tanto caro: sono entrato nella macchina del tempo, vedo Umberto Nobile e la Titina abbaiare, scorgo nella baia la nave Città di Milano, osservo l’equipaggio salire sull’aeronave, li guardo salutare le centinaia di persone a terra mentre si involano verso la meta. Ricordo i loro nomi, le loro azioni, i loro destini. Sul pilone c’è solamente una targa commemorativa che ricorda il volo del 1926 quando il dirigibile Norge lasciò questo pilone l’11 maggio per atterrare in Alaska due giorni dopo. Proseguiamo sino ad una piccola fetta di territorio italiano: una catena delimita un monumento con otto alte croci stilizzate che posano sopra un tronco di cono di pietre racchiuse in una rete di acciaio sulla quale sono appese numerose targhe commemorative. Alla base, pietre piatte disposte ai quattro lati, recano inciso il nome delle regioni italiane. Franco è commosso, chiede a noi tutti di recitare con lui una preghiera in onore degli alpini caduti nelle guerre, poi di intonare il canto “Signore delle Cime” di Giuseppe De Marzi. Mi allontano qualche passo ed ascolto in silenzio: non credo in alcuna religione inoltre le parole del brano di De Marzi, che ben conosco, mi ricordano alpinisti morti sulle montagne che frequento. Dora riprende il momento con il cellulare. Mi dedico alla fotografia: sotto di noi verso il mare una renna e alcune foche. All’improvviso Marta si volta e con entusiasmo ci avverte che a pochi passi da noi c’è una volpe artica. Ci voltiamo, c’è poca luce, ma riesco a fotografarla. Bellissima con il mantello già parzialmente bianco, più piccole delle nostre volpi, pesano circa 3-5 chilogrammi, in estate vagabondano per la tundra e sotto le scogliere dove nidificano gli uccelli, mentre in inverno si procurano il cibo rovistando tra gli insediamenti umani, oppure seguendo gli orsi e cibandosi dei loro avanzi e del cibo che nascondono durante l’anno. Ancora oggi la caccia è permessa in un limitato periodo dell’anno e solo in determinate zone, ma praticata da pochi. In barca osservando le immagini mi accorgo che ha un rilevatore GPS che permette di controllare i suoi spostamenti. Grazie a questo strumento è stato possibile ricostruire l’incredibile viaggio di una femmina di volpe artica, trovata nel mese di luglio di quest’anno, che ha percorso ben 3500 chilometri partendo dalle Svalbard sino ad arrivare sull’isola di Ellesmere. Forse sarò controcorrente, anche se in buona compagnia di parecchi autorevoli scienziati, ma non riesco a vedere l’utilità di questi strumenti applicati agli animali al fine della loro salvaguardia, ben altre azioni possiamo intraprendere per la loro sopravvivenza. Noi umani siamo amanti del pettegolezzo, dobbiamo sempre sapere qualcosa sulla vita degli altri. La volpe fugge più per il sopraggiungere di una sterna sul suo capo che per la nostra presenza. Poco distante un monumento di pietra ricorda il tentativo di Amundsen di raggiungere il Polo Nord nel 1925. Pioviggina, vicino al Centro Nazionale Ricerche una renna sdraiata tranquillamente ci osserva e rumina. Sorrido mentre penso ad una commedia comica italiana recente ambientata proprio qui dove ci troviamo. A sud, in cima alla montagna che sovrasta Ny Alesund scorgiamo l’entrata della miniera. Un’alta recinzione delimita il canile, molti cani ansiosi di trainare le slitte. Un tizio con gli skiroll ed al guinzaglio un cane, una slitta con ruote trainata da quattro cani. Poco prima del porto una vecchia locomotiva con cinque carrelli su un binario morto a ricordare i carichi di carbone che trasportava dalla miniera alle imbarcazioni dal 1917 al 1958. La miniera fu definitivamente chiusa nel 1962 dopo un ennesimo incidente che causò 21 vittime. Mentre noi passeggiavamo Inger e Knut ne approfittano per riempire d’acqua dolce il serbatoio della barca: bene abbiamo ancora 2000 litri a disposizione. Domani ci raggiungerà una perturbazione pertanto Knut preferisce navigare durante la notte sino alla piccola baia di Hamburgbukta. Il mare è alquanto mosso e con stupore, pur trattandosi del mio primo viaggio in barca, felicemente mi accorgo che non soffro il mal di mare. Dopo la mezzanotte è tempo di dormire e come spesso avviene mi addormento nell’arco di un minuto. L’entrata nella baia è stretta ed è profonda solo un paio di metri, lo scafo tocca il fondale, tutti se ne accorgono perché la mattina successiva ne parlano. Non ho sentito nulla, dormivo, probabilmente sognavo orsi e ghiacci.
Bloomstrandhalvoya, Camp Mansfjeld sullo sfondo.
lunedì 26 agosto 2019
Freddo ed inattività invogliano a mangiare. Durante tutto il viaggio poche volte il termometro è sceso sotto lo zero, il freddo non l’abbiamo mai avvertito, invece la poca attività rispetto ai miei canoni giornalieri quella sì che mi manca. Inger è una bravissima cuoca, noi siamo affiatati, un’allegra brigata, è piacevole pranzare insieme, ma oggi decido chele colazioni ed i pasti sono per me eccessivi dal punto di vista calorico rispetto al consumo giornaliero così riduco drasticamente le quantità ingerite altrimenti fra qualche giorno potrei sdraiarmi sulla spiaggia a far compagnia ai trichechi. In attesa dell’alta marea che ci permetterà di ritornare in mare aperto, sbarchiamo e dopo pochi passi calpestiamo la soffice tundra. Cic ciac, cic ciac, i nostri passi sul muschio intriso d’acqua. Antica base di balenieri tedeschi, oggi rimangono alcune tombe scoperchiate di chi qui ha trascorso gli ultimi giorni della sua breve vita ed una capanna collassata frequentata da cacciatori norvegesi. Tutte le numerose ed antiche tombe presenti alle Svalbard hanno restituito scheletri di soli individui di sesso maschile, giovani dall’età inferiore ai trent’anni deceduti per traumi oppure scorbuto. Ripresa la navigazione entriamo nel Magdalenefjorden e lo percorriamo sino a giungere a poche decine di metri da un maestoso muro di ghiaccio: Waggonwaybreen così chiamato perché le morene centrali del ghiacciaio sembrano in lontananza delle nere strade. Anche il sole finalmente decide di mostrarsi regalandoci colori inaspettati, oltre al bianco ed all’azzurro ecco il blu ed il giallo, bassorilievi effimeri pronti a gettarsi in mare con tonfi preceduti da scricchiolii. Nell’acqua intorno alla barca piccoli iceberg, mi diverto ad immaginare forme di animali, mostri leggendari, castelli. Ecco, forse inizia l’artico del mio immaginario: pack, montagne di ghiaccio, insenature, colori, silenzio, freddo, orsi.
Esemplare di renna nella tundra di Ny Alesund.
Passiamo lo Stretto di Sorgattet, situato a sud dell’isola Isola dei Danesi (Danskoya), ed entriamo nel Smerenburgfjord, destinazione Virgohamna, la baia di Virgo, dal nome della nave svedese (S/S Virgo) che nel 1896 portò qui Andrèe per il suo primo tentativo di raggiungere il Polo Nord con una mongolfiera. Dal 2000 l’accesso è regolamentato e per poter sbarcare e visitare quello che rimane della “Cape Canaveral” artica è necessario il permesso scritto del Sysselmannen, il più alto rappresentante del governo norvegese alle Svalbard, permesso che Piero ha chiesto ed ottenuto a tempo debito.
Spedizioni di Andreé.
L’esploratore svedese Salomon August Andrèe tentò nel 1896 e nel 1897 di raggiungere il Polo Nord a bordo di una mongolfiera. Nel 1896 il pallone aerostatico non si alzò neppure in volo a causa di un forte vento che soffiava da nord, mentre il secondo tentativo esitò in tragedia. L’Ornen (Aquila, il nome del pallone aerostatico) perse rapidamente idrogeno e si adagiò sulla banchisa dopo poco più di due giorni: era il 14 luglio. I tre aeronauti a bordo furono illesi, ma dovettero affrontare una dura marcia sul ghiaccio alla deriva con attrezzature ed abbigliamento inadeguati. Incredibilmente riuscirono a raggiungere Kvitoia il 6 ottobre dove stabilirono il loro ultimo campo. Di loro non si seppe più nulla sino al 1930 quando furono casualmente ritrovati da una spedizione norvegese. Tutto il materiale fu recuperato e la loro epopea ricostruita leggendo i diari e visionando un gran numero fotografie che sorprendentemente furono sviluppate dopo ben 33 anni. Fu poi la volta del giornalista americano Walter Wellmann. Con il dirigibile America tentò di raggiungere il Polo nel 1906, 1908 ed infine nel 1909: dopo un breve volo atterrò sulla banchisa dopo pochi chilometri. Oltre ai reperti delle spedizioni svedese (hangar del pallone e filtri per l’idrogeno) ed americana (abitazione, hangar del dirigibile, deposito, tubi di ceramica, bidoni arrugginiti, area della produzione dell’idrogeno e resti della gondola dei dirigibili) sulla spiaggia osserviamo anche tracce della presenza degli antichi balenieri olandesi quali forni per il grasso e tombe accanto alle quali sono ben visibili le fondamenta dell’abitazione, edificata nel 1888 (utilizzata sia da Andrèe che da Wellmann), di Lord Arnold Pike, un ricco inglese che aveva intenzione di svernare alle Spitsbergen per cacciare l’orso.
Spedizioni di Wellmann.
Alla nostra sinistra, sulla spiaggia di Smeerenburg alcuni trichechi riposano, li incontreremo nuovamente dopo qualche giorno. Giungiamo nell’incantevole baia di Sallyhamna, in onore di Sally, la moglie del trapper norvegese che nel 1937 costruì la capanna che vediamo a poppa. Dopo cena con il gommone ci avviciniamo ad un gruppo di foche dai diversi colori: nero, grigie, marroni, perfino biancastre, chiazzate, maculate. Una luce migliore non potrei avere: dietro di noi, quasi radente al mare, illumina i piatti scogli semi sommersi sui quali sono sdraiate assumendo buffe posizioni nell’adattarsi alla forma delle pietre. Ci osservano con i loro tondi occhi neri, chissà a cosa stanno pensando, me lo chiedo spesso quando fotografo gli animali, quando scruto nelle loro pupille, nei loro pensieri. Sono certo che ci chiederanno il perché di molte scellerate azioni che noi umani compiamo. Il tempo a loro dedicato è terminato, Knut ci conduce dalla parte opposta della baia, sbarchiamo, pochi passi e raggiungiamo la vecchia capanna costruita su un antico forno per il grasso utilizzato dai balenieri nel diciassettesimo secolo. Marta e Piero posano sulle loro teste dei palchi di renna trovati tra le pietre, li fotografo controluce: assomigliano a due sciamani siberiani mentre invocano gli spiriti guida. Conchiglie, ricci marini, corna di renne, qualche fiore, silenzio interrotto dagli strepitii degli uccelli, anche le onde dormono. Siamo immersi in un cielo giallo arancione, terso, pulito, senza una nuvola. A bordo guardiamo un film del 1969 “La Tenda Rossa” dove viene liberamente ricostruita la vicenda del viaggio al Polo Nord del dirigibile Italia e le vicissitudini dei componenti della spedizione. Visto per l’ennesima volta, pur con molte imprecisioni storiche, lo considero un buon film per la sua originalità nel ricostruire gli eventi. La visione termina a mezzanotte, non posso andare a dormire con tutta la meraviglia che c’è intorno a me. Rimango per decine di minuti all’esterno, continuamente mi volto da ogni parte, mi chiedo perché nel mondo non esiste questa armonia, questo equilibrio, questa serenità. Raramente utilizzo il telefono per filmare, ma questa è una occasione speciale, è l’unico modo per ricordarmi questi momenti. Mi emoziono.
Foca comune a Sallyhamna.
martedì 27 agosto 2019
Navighiamo durante tutta la mattina perché nel pomeriggio è previsto un forte vento da sud-est e di conseguenza mare mosso. Avvistiamo due balene, probabilmente un adulto con il suo piccolo a giudicare dalle dimensioni e dagli sbruffi. Giunti a Capo Velkomstpynten deviamo verso sud, entriamo nel fiordo Liefdefjorden (fiordo dell’amore, probabilmente dal nome di una nave olandese del diciassettesimo secolo) sino a giungere al ghiacciaio Monacobreen così chiamato perché mappato da una spedizione guidata dal Duca Alberto I di Monaco nel 1906/7. Vediamo due ghiacciai entrare in acqua, il Monacobreen alla nostra sinistra e il Seligerbreen alla sinistra, oggi le loro lingue sono bene distinte e separate da una montagna, ma sino al 2015 il fronte era unico. Cielo coperto, luci gialle quando squarci tra le nuvole permettono al sole di illuminare il mare, iceberg blu, bianchi, azzurri. Rimaniamo tutti incantati, sbalorditi, questo ghiacciaio è ancora più imponente di quelli incontrati precedentemente, chilometri di muro di ghiaccio. Scricchiolii, rumori percorrono la muraglia bianco azzurra, tonfi, nuvole d’acqua si alzano, annuso il profumo del ghiaccio. La barca si avvicina sin sotto questa immensa gelida cattedrale, siamo piccoli, siamo infinitamente piccoli. Pareti ripide, verticali spesso strapiombanti. Il fronte è tormentato dalle infinite spaccature verticali ed orizzontali, sembra debba cadere in acqua da un momento all’altro. Avverto le stesse emozioni di inutilità che provo quando sono sulle vette alpine: siamo delle insignificanti creature arroganti, quando riusciremo a capire che questa Terra non è nostra, ma siamo solo fugaci ospiti? Osservo con attenzione ogni anfratto, ogni iceberg, mi aspetto da un momento all’altro l’orso, ma niente purtroppo, inizio a disperare, chissà perché ritenevo fosse frequente il suo avvistamento, poi penso a quante volte sono andato in Abruzzo prima di poter incontrare e fotografare l’orso marsicano, pertanto lo sconforto svanisce, si tratta solo di fortuna e di intreccio di mille variabili e casualità. Oggi il cielo è blu, viola, indaco. Non è possibile raggiungere il mare aperto pertanto rimaniamo nel fiordo ed approdiamo nella baia Hornbaekpollen, scesi a terra, accompagnati da una costante pioggerellina, raggiungiamo Texas Bar, una capanna costruita nel 1927. Le rocce si alternano al terreno morenico, terroso, instabile. C’è anche un piccolo lago. La vegetazione gialla, marrone, arancione, rossa è gommosa, gli stivali sprofondano in un cic ciac continuo, mi diverto. Blocchi di ghiaccio di diverse dimensioni sono arenati lungo la spiaggia, probabilmente verranno utilizzati per i cocktail dagli avventori del locale. Le luci di ieri sono scomparse, nere nuvole non preannunciano nulla di buono, l’autunno quest’anno è impaziente, è giunto con un paio di settimane di anticipo.
Tundra presso Hamburgbukta.
mercoledì 28 agosto 2019
Chissà, forse un benevolo vento avrà allontanato le nuvole, ma purtroppo nulla è cambiato, anzi durante la notte ha nevicato ancora più in basso, neve fresca sino circa 500 metri di altezza. Inger e Knut sono usciti a raccogliere le reti che hanno posato ieri, la pesca non è stata molto fortunata, un solo artic fish, ma di grosse dimensioni. Alle 10.00 si leva l’ancora, rimaniamo nel fiordo perché anche oggi i forti venti provenienti da sud non permettono alla barca di uscire in mare aperto, ormeggiamo sulla costa opposta, quella orientale, siamo nella baia di Mushamna (baia del topo). Una volta a terra ci dirigiamo verso due delle molteplici capanne utilizzate per la caccia, una è stata costruita nel 1927 mentre la seconda nel 1987. Nei pressi ci sono due vecchie slitte, una ancora in buono stato. Dall’inizio del XIII secolo sino alla metà del XIX secolo più di 70 capanne erano presenti alle Spitsbergen utilizzate dai Pomori, trappers originari delle coste del Mar Bianco. Vi abitavano tutto l’anno: in inverno si dedicavano alla caccia all’orso ed alla volpe per le loro pregiate pellicce, in estate alla caccia al tricheco e alle foche, in autunno alle renne ed alle pernici. Con il tempo i Russi ridussero le loro attività e intorno al 1850 furono gradatamente rimpiazzati da cacciatori norvegesi ed il numero di queste capanne aumentò sempre più. Al museo di Longyearbyen abbiamo visto le trappole utilizzate per non rovinare le pellicce: gli orsi erano uccisi con un proiettile alla testa proveniente da un fucile collegato ad un’esca, mentre per le volpi l’esca era collegata ad una grossa pietra che cadeva sul cranio. La tundra con il vestito autunnale ancora una volta ci meraviglia con i suoi colori impreziositi da specchi d’acqua, piccoli laghi, pozze e lagune dove sono posate numerose sterne. La migrazione di questi piccoli uccelli dal peso di poco più di cento grammi è incredibile: li troviamo nelle terre artiche, dove nidificano durante la breve estate, per poi migrare sino in Antartide durante l’inverno boreale, decine e decine di migliaia di chilometri percorsi ogni anno e durante tutta la loro vita, mi viene da sorridere quando penso alla maggior parte delle persone che si spostano in auto anche per percorrere poche centinaia di metri! Piero mi mostra un’orma di orso. Solo ora, in questi giorni, comprendo l’estensione di queste isole: le Svalbard sono immense, la loro superficie è grande quanto quello dell’insieme di Lombardia, Piemonte e Trentino Alto Adige, ma soprattutto sono geograficamente e morfologicamente complesse. Immaginavo poche montagne, poche vette, immensi deserti ed altopiani, invece mi ritrovo in una infinità di catene montuose che nascondono un altrettanto numero di valli ben celate. Baie, insenature, fiordi brevi, fiordi lunghissimi. Penso ai primi esploratori, alle loro difficoltà ed incredibili capacità di orientamento, in particolare ricostruisco nella mente le spedizioni di soccorso alla ricerca del dirigibile Italia ed ora mi rendo conto della complessità di tali operazioni. Tornati sulla barca visioniamo interessanti fotografie e filmati relativi ad alcuni precedenti viaggi organizzati da Piero, terminata la visione ecco un piacevole ed inaspettato annuncio: possiamo fare una doccia. Gli infaticabili Knut ed Inger, mentre noi eravamo a spasso per la tundra, hanno raccolto acqua dolce da un torrente ponendola prima nel gommone dove hanno posto un telo impermeabile, poi nel serbatoio della barca. Tutto questo utilizzando secchio ed imbuto. Il loro amico, proprietario della nave ha dato loro proprio un bel grattacapo, ma penso che da esperti abitanti di Longyearbyen questo fastidio non sia per loro così complesso e problematico. Dopo cena assistiamo ad uno speciale del TG1 del 2014 dal titolo “Ritorno alla fine del mondo” di Paolo Giani con la collaborazione del “nostro” Piero, racconta le vicende di due grandi esploratori italiani in Patagonia e Terra del Fuoco: Giacomo Bove e Padre Alberto De Agostini. Knut e Inger vanno a recuperare le reti da pesca e tornano con il sorriso. Fuori, luci artiche, nuvole dalle cento diverse tonalità di colore dal grigio all’azzurro dove spesso il giallo e l’arancione si mescolano e fanno capolino. Mi sembra di veleggiare in un lago di montagna: la spiaggia, la tundra inizialmente arancione man mano che risale le pendici muta in marrone ed infine grigia per poi lasciare spazio alla neve sino alle pianeggianti vette simili alle nostre montagne appenniniche. L’unione tra mare e montagna è affascinante, tra di loro non sembra ci siano confini, un elemento si trasfigura nell’altro armoniosamente come in un adagio in sol minore. Costantemente osservo le rive, da poco è passata la mezzanotte è tempo di dormire.
Tramonto a Sallyhamna.
giovedì 29 agosto 2019
Terminata la colazione Knut ed Inger mettono il rosso mercury in acqua e vanno alla foce del torrente per fare ulteriore scorta di acqua. Accidenti, troppi tempi morti per il mio spirito, speravo in giornate più movimentate, confidavo in escursioni di molte ore. Sarebbe stato sufficiente un’abbondante colazione ed una sostanziosa cena, tutto il resto della giornata avremmo potuto dedicarlo nell’esplorazione di questi meravigliosi luoghi. Penso che non ci saremmo neppure stancati perché le pause dedicate alla fotografia sarebbero state innumerevoli. Salpiamo alle 10.30, costeggiamo la costa orientale del Woodfjord così chiamato per la grande quantità di legname alla deriva presente sulle spiagge proveniente soprattutto dalle foreste della Siberia, alberi tagliati e giunti al mare trasportati dagli immensi fiumi siberiani, oppure legni di antiche navi naufragate e a tal proposito mi piace pensare di aver toccato un frammento della nave americana Jeannette stritolata dai ghiacci ed affondata al largo della Nuova Siberia nel 1881.
Orso Polare lungo la costa.
Alle 11:15 Piero mi comunica che Knut ha avvistato un orso. Sono incredulo, sono felice, il malumore scompare, guardo verso la costa, non vedo nulla in movimento, poi con più attenzione e con il binocolo lo avvisto! Tachicardia e orripilazione, o meglio, battiti cardiaci a mille e “pelle d’oca” tanta era la mia emozione. La barca si avvicina sempre più e riesco, con il teleobiettivo, a scattare delle discrete fotografie, ma l’eccitazione aumenta quando Piero ci informa che Knut ci porterà, prima un gruppo, poi il secondo, vicino a riva, vicino all’orso. In pochi secondi sono già sul gommone con la fotocamera pronta all’uso. Non è semplice utilizzare il teleobiettivo: l’orso si muove, il gommone avanza, le onde cullano il gommone, le mie mani tremano. In ogni caso scatto centinaia di fotografie: orso lungo la costa, orso che scende sulla spiaggia, orso che annusa un ammasso di alghe, orso che entra in acqua, orso che esce dal mare e si scrolla. Scendiamo a terra, l’orso viene verso di noi, ma il terreno accidentato con numerosi saliscendi mi impedisce di fotografarlo nella sua interezza. Riconosco di aver avuto un grande privilegio, non saprei quanti altri skipper ci avrebbero permesso questa esperienza così ravvicinata. Grazie Knut! Torniamo alla barca, é il turno del secondo gruppo che lo fotografa perfino mentre attraversa un torrente. Dopo il loro ritorno riprendiamo la navigazione, elettrizzati per la straordinaria ed entusiasmante esperienza osserviamo a lungo le immagini acquisite dalle nostre fotocamere. Si tratta di un soggetto giovane, verosimilmente di tre anni, in Norvegia dicono “orecchie grandi orso piccolo, orecchie piccole orso adulto”, il nostro ha orecchie grandi, probabilmente si tratta di un esemplare giovane. Mare mosso, “si balla”, alte onde si infrangono sulla prua sino a giungere a guisa di enormi secchiate sui vetri della cabina. Superiamo l’isola di Moffen, peccato non poterci fermare, procediamo verso nord-est, alle 16:30 superiamo l’80°parallelo (80:00 N 15:41 E), giunti all’imbocco dell’Hinlopenstretet la barca si dirige verso la baia di Murchisonfjorden (da Sir Roderick M. geografo e geologo inglese del diciannovesimo secolo) e verso le 21 siamo di fronte a Kinnvika (da Kinneviken, baia di un lago della Svezia). Prima di cena festeggiamo il superamento dell’80° parallelo con un aperitivo a base di tartine preparate da Dora e Patrizia e vino bianco Prosecco, una delle numerose bottiglie portate da Flavio dall’Olanda. Una piccola parentesi riguardo la cambusa di Flavio: quasi tutte le sere estraeva dalla sua magica borsa bottiglie di vino bianco o rosso, vov, jagermeister, vodka, cioccolato. Fuori dal comune la sua simpatia e la sua gentilezza, sempre pronto a piacevoli e divertenti battute. Sono passate le 23, il sole, palla di fuoco, alle mie spalle si sta abbassando sotto l’orizzonte, vi rimarrà per poco tempo poi nuovamente riapparirà. Pioviggina, il mare è mosso, da sud giunge un forte vento.
I grandi spazi delle Svalbard.
venerdì 30 agosto 2019
Pur riparati, durante la notte “abbiamo ballato”, così mi dicono coloro che non sono riusciti ad addormentarsi: dentro di me sorrido, mi reputo fortunato, non me ne sono neppure accorto. Rimaniamo nella baia, mi dispiace perché ogni mattina al risveglio spero nelle buone condizioni meteorologiche per poter procedere verso nord-est e sperare di ammirare l’icepack, ma anche oggi non sarà possibile. Knut e Piero sono esperti pertanto se così hanno deciso avranno le loro fondate ragioni. Raggiunta la riva ci dirigiamo verso l’abbandonata, ma ancora in buone condizioni, base scientifica svedese-finlandese, tra le antichissime rocce bianche, brune, rosse troviamo perfino degli stromatoliti e poco dopo ci imbattiamo in una targa commemorativa posta nel 1978 dalla società escursionistica Giulio Guedoz di Legnano. Guedoz, alpino valdostano partecipò alla ricerca dei dispersi del dirigibile Italia nel 1928 con la spedizione Sora e nel 1929 con la spedizione Albertini, alla ricerca di eventuali tracce dell’involucro del dirigibile e degli altri componenti, durante la quale trovò la morte. Proprio nel Murchisonfjorden, in località Sore Russoya, gli svedesi nel giugno1928 avevano allestito un loro accampamento ed il pilota Einar Lundborg dopo aver individuato la posizione della Tenda Rossa ed aver fatto salire Umberto Nobile sul suo Fokker era qui atterrato in attesa di trasportarlo successivamente sulla nave Città di Milano ormeggiata a Virgohamna. Le famose le fotografie di Nobile avvolto nelle coperte con la Titina in braccio furono scattate proprio qui. Quando penso che sui libri sembra tutto così facile, semplice, appare tutto vicino ed accessibile, comprendo quanto sia invece tutto immenso e complesso. Una volta a casa rileggerò alcuni volumi con altra immaginazione derivata dall’esperienza vissuta durante questo viaggio. La passeggiata, come spesso accade, è troppo breve, il ritorno sulla barca per pranzo andrebbe abolito, una fetta di pane e formaggio, consumati a terra, sarebbe stato sufficiente. Vorrei conoscere, esplorare, ammirare, rimanere a terra il più possibile: per mangiare e chiacchierare c’è tempo durante la cena.
Le capanne della base Svedese a Kinnvika.
Fortunatamente alle 14.30 sbarchiamo nuovamente, non smetterei mai di contemplare e fotografare il deserto artico e la tundra. Ci imbattiamo in nevai, laghi, fiori (molti Svalbard poppy, il papavero fiore simbolo di queste isole), vegetazione alta pochi centimetri, palchi ed ossa di renne, fatte di renne ed un teschio di volpe. Intorno al lago, sulle rive ci sono moltissime sterne, la luce è perfetta per la fotografia. Sono allegro e contento, sto camminando sull’isola di Nord-Est, Nordaustlandet, territori desolati. Anche oggi un plauso a Flavio, da buon cittadino del mondo raccoglie la plastica che purtroppo troviamo anche in queste terre sperdute e lontanissime dalla così detta civiltà. Mentre le correnti provenienti dal nord e dall’est portano legname alla deriva, quelle provenienti dai Caraibi e dall’Atlantico recano una grande quantità di spazzatura, soprattutto plastica utilizzata nell’industria della pesca, come reti, scatole o altro materiale galleggiante quale sughero e polistirolo. Qualche anno fa la Norvegia ha promosso il progetto “Clean up Svalbard” per recuperare la spazzatura dalle spiagge. Questa sera per cena Inger ha cucinato un’ottima pasta al formaggio e salmone con il pesto. Che brava! Terminata l’appagante e come sempre abbondante cena è il turno delle due crostate preparate da Elena e Renato: che buone! Il clima a bordo è sempre piacevole, siamo un buon gruppo. Questa mattina abbiamo partecipato ad una inedita ed imprevista caccia al tesoro con protagonista il cellulare, dalla custodia nera colore delle rocce, di Renato. Perduto in un avvallamento, vicino ad un corso d’acqua è stato ritrovato dopo una divertente ricerca che ha coinvolto tutta la comitiva. Rimaniamo nella baia, ma navighiamo verso sud per circa un’ora. Come ogni sera esco ad ammirare il paesaggio, non fa freddo, indosso una maglietta a maniche corte, contemplo il deserto artico, penso a tutto ciò che ho avuto la fortuna di osservare oggi, così rivedi i laghi, i nevai sulle pendici delle alture che sciogliendosi danno vita a torrenti che scavano gole più o meno profonde prima di arrivare al mare. La natura a modo suo ci parla con suoni, immagini e colori: è un privilegio poter dialogare con lei. Anche il silenzio che ora mi avvolge ed il profumo del mare ingentilito dal ghiaccio disciolto mi raccontano storie e leggende, fiabe e miti. Mi spiace andare a dormire, rimarrei sveglio tutta la notte, chissà forse potrei avvistare un orso.
sabato 31 agosto 2019
Il consueto ed abituale cielo grigio con nuvole basse anche questa mattina ci offre il suo buongiorno. Le colazioni diventano fortunatamente più veloci, ci prepariamo per l’escursione mattutina. Mentre raggiungiamo la spiaggia per ben due volte una foca fa capolino, ci osserva con curiosità e ripeterà le sue visite al nostro ritorno sulla barca. Sulla superficie del mare giovani uccelli nuotano, sono nati da poco, probabilmente non riusciranno a lasciare l’artico prima dell’inverno, la loro vita sarà breve. Oggi assenza di vegetazione, attorno a noi solamente e dovunque pietre, sassi, ghiaia, massi di ogni dimensione, ma a discapito della monotonia del cielo si diversificano per i loro innumerevoli colori: rosso, ocra, nero, grigio, giallo, arancione. Dappertutto rocce compatte, rocce basaltiche ricche di inclusioni colorate come una pioggia di coriandoli, mentre le creste e le cime delle montagne sono composte da rocce lamellari, sottili a formare pagine di corposi volumi dai colori rosso ed ocra, così come incontriamo ampi territori con sassi sempre più piccoli, ciottoli, ghiaia sino a diventare finissima sabbia. Ci divertiamo ad attraversare uno dei tanti piccoli nevai che incontriamo, estesi accumuli di neve dove Marta, il nostro folletto o meglio la nostra fatina, si diverte salire per poi scendere a perdifiato senza mai stancarsi. Incontriamo laghi, bassi ruscelli e torrenti che guadiamo come provetti esploratori, luoghi umidi dove sterne ed oche selvatiche sono ancora presenti, ma in procinto di migrare. Saliamo una sommità pianeggiante, larga ed allungata, pur essendo a soli 150 metri sul livello del mare, osservando l’orizzonte da sud-est a nord-est ammiriamo una piccolissima parte dell’enorme calotta glaciale che ricopre questa remota isola. E’ nuvoloso, vorrei che il sole avesse qualche attimo di gloria ed illuminasse il ghiacciaio, dopo qualche minuto come se le nuvole mi avessero ascoltato, caritatevolmente si sono diradate per qualche minuto ed hanno permesso al sole di far brillare la calotta. Come si dice: pochi minuti che valgono il biglietto per tutta la giornata, le Svalbard non cessano di stupirci. Quando nuovamente le nuvole coprono il sole, la luce che ne deriva crea una strana illusione: il confine tra il cielo e la calotta glaciale era indefinito e se non l’avessi osservata prima avrei confuso quest’ultima con il mare. Dopo quattro ore di escursione torniamo alla barca sotto una leggera pioggia.
Il deserto artico di Nordaustlandet.
A pranzo Piero ci comunica che cercheremo di raggiungere Nordkapp, non nego che sono contento, così come in montagna desidero salire sempre più in alto sino a raggiungere la vetta, qui anelo di procedere verso nord il più possibile, vorrei vedere il confine dell’icepack ed immaginare la sua estensione sino al Polo Nord, inoltre è radicato nell’immaginario l’associazione ghiaccio alla deriva con la presenza dell’orso bianco, delle foche e dei trichechi muoversi sopra questo bianco mondo effimero e mutevole. Non appena usciamo dalla baia incontriamo il ghiaccio galleggiante alla deriva, drift ice, proveniente da sud, dallo stretto di Hinlopen, spinto dal vento e dalle correnti. Il bianco e l’azzurro del ghiaccio contrastano il grigio del cielo e del mare. Confido nel vento, nella sua azione benevola di allontanare le nuvole, ma purtroppo non mi ascolta, ha altro a cui pensare. Livido, plumbeo, nuvoloso, uggioso, così si presenta il cielo ed il mare si adegua aumentando sempre più il suo moto ondoso. Tutti nelle cuccette, rimango con Inger che procede spedita con i suoi lavori con la lana e Knut ai comandi, osservo verso destra, ma la costa non è visibile, siamo in mare aperto, la velocità inizialmente di 8 nodi ora è scesa a 5. Alle 20:00 il mare è ancora costantemente mosso, alla destra ripide ed alte pareti, scure, nere, nevai e tanta neve nei couloir, non vedo le vette, ma ancora una volta è variato il paesaggio di queste straordinarie isole. In lontananza di fronte a noi, a nord-est la più vicina delle Sjuoyane, le sette isole. Raggiungiamo la latitudine massima di 80°30” N, la visibilità diminuisce sempre più, le nuvole sono basse, molto basse, pochi metri sopra la superficie del mare, Knut conduce la barca nel Beverlysundet (da un partecipante ad una spedizione di Parry nel 1827) ed alle 21:40 ormeggia a sud dell’isola di Chermisideoya (da un membro della spedizione del 1871 di Leigh Smith): 80°28”N 19°28”E. Curiosamente proprio da questo luogo, dove siamo ancorati, il 18 giugno 1928 partì l’eccezionale spedizione di soccorso verso la Terra di Nord-Est, alla ricerca dei superstiti del dirigibile Italia, dell’alpino Gennaro Sora con due compagni e due slitte trainate da cani. Di fronte a noi ghiaccio, impossibile proseguire, leggo preoccupazione nelle espressioni di Knut. Durante la notte, a turno abbiamo il compito di osservare per un’ora a testa il movimento del ghiaccio: se dovesse avvicinarsi alla barca, trasportato dalle correnti marine e/o dal vento dobbiamo immediatamente avvisare Knut. Ceniamo tardi questa sera, sono le 22.30. Una foca si avvicina alla barca, dopo mezzanotte altre due. Con me Elena e Renato che terminato il suo turno all’una mi passa il testimone. Alle due tocca a Flavio, vado a dormire. Nuvole basse, scure, grigie, nere, sopra i dieci metri non si vede nulla, sulle rive rocce scure chiazzate di neve.
domenica 01 settembre 2019
Nuvole basse, tutto intorno grigio e nero, i ghiacci che stazionavano lontano dalla barca, ora si stanno muovendo verso di noi, poco dopo le 7 lasciamo Beverlysundet. Peccato, abbiamo rinunciato a quasi due giorni di escursioni, ieri pomeriggio e tutta la giornata di oggi, proseguire verso il nord è stato un azzardo, c’è del rammarico, ma nessun pentimento. Non avessimo provato, forse avremmo visto icebergs, orsi e trichechi nell’Hinlopenstretet, ma nel caso non avessimo avvistato nulla avremmo avuto il rimpianto di non aver provato ad avanzare verso nord-est. In ogni caso la prossima volta ascolteremo i probi e retti consigli di Piero. Si torna verso sud, si preannuncia una noiosissima giornata: mare mosso, navigazione, cielo plumbeo. Quattro trichechi in acqua ci salutano sorridendo sotto i baffi, certamente si stanno burlando di noi. Durante la navigazione leggo i due volumi che ho portato con me: “Spitsbergen Svalbard” di Rolf Stange ed “Il richiamo del lupo” del norvegese Reidar Muller. Marta contribuisce a rendere meno noiosi i momenti di navigazione chiedendo a Flavio e a me aiuto per svolgere i compiti di matematica mentre a Patrizia si rivolge per italiano, un po’ di ripasso di equivalenze e geometria serve sempre. In cambio, da alcuni giorni al pomeriggio prepara per tutti delle gustose tartine oltre ai colorati pon pon di lana e scooby doo. Ieri i nostri Inger e Knut hanno rifornito l’Arctica II di altra acqua dolce, così ne approfittiamo per lavarci: oggi doccia a dondolo, cullati dalle onde. Alle 20.40 siamo nella baia di Sally, Sallyhamna, ma questa volta il cielo è diverso, non c’è luce, ma solo nuvole e scarsa visibilità.
Riflessi.
lunedì 02 settembre 2019
Sveglia con nuvole, come si dice “niente di nuovo sotto il sole”, già, ma il sole chi lo vede più? Elios probabilmente ci ha sentiti e mentre, sconsolati, facevamo colazione, in pochi minuti ha allontanato le nubi e raggiante è comparso. Sallyhamna porta fortuna, ecco di nuovo l’artico con tutti i suoi colori, eravamo un po’ stanchi del grigio e delle sue sfumature. Direzione isola di Amsterdam, Amsterdamoya, località Smeeremburg (letteralmente città del grasso di balena) antico quartier generale dei balenieri olandesi nella prima metà del ‘600. All’epoca vi lavoravano circa 200 persone, oggi rimangono le fondamenta degli edifici, le tombe ed i forni con ancora i residui di grasso secolare. L’olio di balena e dei trichechi era venduto per l’illuminazione, per la produzione di sapone e lubrificanti. Uccise, rimorchiate sino alla spiaggia, tagliate in pezzi messi poi a bollire nei forni. Le stazioni furono abbandonate verso la metà del XVII secolo perché le balene lasciarono i fiordi per il mare aperto, così la caccia e la trasformazione in olio avvenne in alto mare direttamente sulle navi sfruttando nuove tecniche. Nel momento del massimo splendore, o meglio del massimo sterminio, nelle acque intorno alle Svalbard si contavano più di 300 navi (olandesi, inglesi e tedesche) che catturavano 1500 balene. Nel fiordo omonimo scendono in acqua enormi lingue di ghiaccio, il mare non ha neppure un’increspatura, le montagne vestono di autunno, il cielo è azzurro, la spiaggia è uno scrigno di attrazioni, brilla per la grande quantità di sabbia quarzifera, ci sono enormi alghe, ciottoli, massi erratici, sassi di ogni forma e colore e grigio legname. Il sortilegio, la magia, l’incantesimo delle Svalbard mi ammalia. Quando penso che nell’immaginario di molti l’artico è visto come un gelido paesaggio bianco, sorrido: probabilmente ci sono più colori qui che all’equatore. Ritroviamo il gruppo di trichechi che avevamo già individuato il ventisei agosto. Complice una luce ottimale le fotografie si sprecano e lentamente facendo attenzione a non disturbarli ci avviciniamo sino a pochi metri. Sono enormi, i maschi possono arrivare a pesare sino 1200 chilogrammi e dopo gli abbondanti pasti a base di vongole (vengono succhiate, la conchiglia non viene ingerita) rimangono per giorni a sonnecchiare sulla spiaggia: goffi nei movimenti sulla terra, velocissimi in acqua. Mi hanno colpito i loro occhi malinconici, piccoli in proporzione alla loro mole. La loro caccia è bandita dal 1952. Animali, geologia, archeologia, ghiaccio, mare, montagne: il libro della natura, non manca nulla. In queste situazioni quando la felicità raggiunge le alte vette avverto la mancanza di condivisione con i miei familiari perché non è facile raccontare cosa si prova quando si osserva da vicino un orso, dei trichechi e tutto ciò che questi luoghi mi stanno offrendo, le parole non bastano, i brividi sono personali. Trascorriamo le ore pomeridiane nel Magdalenefjorden, alte pareti rocciose, alla base del fiordo l’ennesimo, ma non per questo meno affascinante e spettacolare, ghiacciaio. Sbarchiamo e dopo poche centinaia di metri ci attende un enorme tricheco, sono tutti mastodontici, ma questo lo è ancor di più. Tiene il collo ed il busto alzato, dietro di lui mare e un muro di ghiaccio, i suoi canini, le sue zanne potrebbero essere lunghe anche un metro: esemplare sontuoso in luogo ideale per essere protagonista di numerose fotografie. Qui, Leonie D’Aunet vi sbarcò il 31 luglio del 1839, fu la prima volta (documentata) che una donna posò piede sulle Spitsbergen. Peccato, dobbiamo tornare a bordo, Arctica II ci attende per riprendere la navigazione verso sud. Alla nostra sinistra le pareti delle montagne hanno caratteristiche morfologiche alquanto differenti, raramente sulle Alpi si vedono tali varietà di colori e di conformazione in brevi distanze, pareti nere, bianche, grigie, marroni, punte aguzze, cime piatte: sembra che qualcuno si sia divertito a mescolare le rocce. Alle 21:30 mentre entriamo nello stretto di Forland sono quasi tutti già a nanna, alle 23 il sole è sotto l’orizzonte, ma non smette di diffondere la sua luce sulle montagne dell’isola Prins Karls Forland che si colorano di marrone, di giallo, di rosa, di viola, di rosso. Verso sud ci attendono le nuvole, inizia a cadere una lieve pioggerella fine e minuta accompagnata da un enorme arcobaleno che unisce le due rive, un arcobaleno gigantesco, un arco di dieci chilometri con colori tendenti al rosso e viola. Con un tale arco chissà quali tesori gli gnomi avranno nascosto alle sue basi!
Alle Svalbard il sole tramonta per la prima volta dopo il 20 agosto.
martedì 03 settembre 2019
Solo poco prima delle 2.00 Knut ancora l’Arctica II nella baia di Dahlbukta (dal nome del baleniere Thor Dahl), di fronte all’imponente ghiacciaio omonimo Dahlbreen. Abituale sveglia, consueta colazione, medesimo cielo grigio, varia la latitudine, non varia il risultato, come la proprietà commutativa ripassata in questi giorni. Unica differenza, si vedono le vette delle montagne, tutte aguzze, sembrano dei piccoli Cervino, Weisshorn, Dent Blanche: il nome Spitsbergen è proprio appropriato. Piccole montagne certamente, ma si tratta in ogni caso di pareti effettive di 900-1000 metri, pertanto niente male, tuttavia le creste salgono dolcemente e danno l’impressione che si possa raggiungere agevolmente la vetta. Sbarcati, camminiamo su pietraie, avvallamenti, aggiriamo alcuni laghetti, saliamo su morene: un continuo saliscendi. Ripetutamente una foca sbuca dalla superficie dell’acqua e rapidamente scompare, ci annuncia la presenza di tre sue compagne distese sopra un grosso masso che emerge dal mare. Sono curiose, ci guardano con i loro occhioni neri e non sono spaventate. Tollerano la nostra presenza, così ci avviciniamo sino a pochi metri. Anche la luce è migliorata, le fotografie risultano pregevoli. Sulla spiaggia sono arenati numerosi blocchi di ghiaccio modellati dalle acque, uno particolarmente grande e trasparente è scolpito a guisa di culla, ottimo pretesto per farsi fotografare una volta seduti. Rimarrei per ore ad osservare i buffi atteggiamenti e movimenti delle foche, ma dobbiamo raggiungere il ghiacciaio. L’ambiente è davvero paradisiaco: il fronte del ghiacciaio è alto, la seraccata è imponente, i colori variano dal bianco al blu, dall’azzurro al nero, un concerto di scricchiolii e tuoni, che ci rivelano che il ghiacciaio è vivo e si muove, preannunciano i tonfi che accompagnano le cadute dei blocchi di ghiaccio nel mare sottostante chiuso parzialmente da una enorme ed alta morena a formare un immenso bacino di acqua quasi stagnante dove galleggiano migliaia di piccoli iceberg. Come sottofondo agli improvvisi tuoni e rombi ecco la melodia di quest’acqua che cullando le zattere ghiacciate le fa cozzare tra di loro senza sosta in una infinita ninna nanna. Raggiungiamo il punto più alto della morena, la vista del muro ghiacciato da questa posizione privilegiata è impressionante. Non riesco a rimanere con gli altri e sfidando l’eventuale rimprovero di Piero scendo sino alla spiaggia sottostante la morena e gironzolo fra blocchi blu di ghiaccio per lo più di forma tondeggiante. Mano a mano che mi addentro, sono talmente alti che quasi scompaio, mi annettono, mi inglobano come un’insetto nell’ambra. Quando si dice “immersi nella natura”. Purtroppo è tempo di tornare, notiamo impronte d’orso e ritroviamo le “nostre” foche ancora sullo stesso scoglio a crogiolarsi al debole, ma piacevole sole. Dopo l’ennesimo pranzo meritevole di plauso Arctica II riprende la sua navigazione verso sud e dopo alcune ore siamo a Trygghamna, baia che abbiamo già visitato, ma a differenza di quella prima giornata, oggi le vette dei monti sono innevate. Come spesso accade Gilberto si porta a prua e da buon marinaio si prodiga nelle operazioni di ancoraggio. Alle 18.00 sbarchiamo per una delle ultime escursioni, siamo solo in sei, Piero compreso, ci inoltriamo in una valle verso nord. Inizia a piovigginare, ma ormai siamo abituati, raggiungiamo un lago, poi mentre la pioggia aumenta ci dirigiamo verso un secondo lago su continui saliscendi. La vegetazione in alcuni punti perfino rigogliosa con ciuffi d’erba alti una ventina di centimetri gradualmente lascia spazio alle sole pietre. Una pietraia instabile, esito di remote frane. Improvvisamente, in una gola, lungo le rive del torrente una candida cometa scivola tra le rocce, una volpe artica con il mantello già completamente bianco è alla ricerca di cibo. La fotocamera è nello zaino, la luce è scarsa e piove, insomma le condizioni non sono ideali per fotografare, ma riesco in ogni caso ad ottenere delle discrete fotografie. Di certo le Svalbard non sono noiose e ripetitive, ogni giorno accade sempre qualcosa di pregevole, le emozioni sono sempre in agguato. Dalla pioggia si passa alla neve, che bello, camminerei per ore in questo paesaggio sempre più bianco: neve sulle vette ormai coperte dalle nuvole, neve sulle pendici dei monti, neve sempre più a bassa quota sino quasi alla spiaggia. L’ennesimo incanto. Per cena salmone e artic fish pescato dai nostri amici norvegesi con contorno di patate al forno: come sempre abbondante e squisita. Dopo cena, un nemico avanza inesorabilmente: c’è “campo”, sia linea telefonica che internet, uffa si stava così bene senza, per il prossimo viaggio chiederò che la barca venga schermata. Svalbard e Artico sono sinonimi di natura e silenzio. Sono le 23, sul mare piove, ma cento metri più in alto nevica senza interruzione come dimostrano le pareti imbiancate. Tempo da lupi si dice indicandolo con un’accezione negativa, ma a me i lupi piacciono. Mi godo la solitudine in coperta.
Tramonto nel Forlandsund.
mercoledì 04 settembre 2019
L’inverno attende il nostro risveglio, fuori non fa freddo, la neve non è molta, ma copre tutto il paesaggio dalle rive alle vette, come lo zucchero a velo sul pandoro di Natale. Esco, è nuvoloso, i fiocchi di neve diventano sempre più radi sino a scomparire, i rumori dei messaggi e delle tastiere dei cellulari mi infastidiscono, sono fuori luogo, intorno a noi c’è bellezza ed armonia, non capisco come si possa trascorrere del tempo ad intrattenersi con un telefono, mi sembrano tutti felici di tornare, anch’io lo sono per rivedere i miei famigliari, ma solo per questo motivo, di certo non per il lavoro, per le relazioni sociali, per le cene o altri divertimenti. Mah, la mia misantropia felicemente accresce. Prima di dirigersi verso Pyramiden visitiamo la baia di Ymerbukta (da una rivista scientifica svedese, Ymer è un gigante della mitologia norvegese) e scrutiamo il fronte del ghiacciaio Esmarkbreen (Jens Esmark geologo norvegese) alla ricerca di animali, purtroppo invano. L’imponente baluardo è spettacolare come tutti gli altri, ma, sfortunatamente per lui, viene sottovalutato dai più perché ormai sazi di muri di ghiaccio bianco azzurro. Mentre navighiamo nell’Isfjorden e successivamente nel Billefjorden (Cornelius Bille, baleniere olandese del diciassettesimo secolo) verso Pyramiden avvistiamo sulle rive alla nostra sinistra molte renne brucare dopo aver allontanato la neve con gli zoccoli, in mare moltissimi uccelli tra i quali gabbiani, fulmari e numerosi pulcinella di mare.
Pyramiden prende il nome dalla conformazione della montagna sovrastante alta 939 metri dove, poco sotto la vetta è situato l’ingresso della miniera, ex insediamento minerario russo gestito per 53 anni dalla compagnia di stato Trust Arktikugol, abitata da un migliaio di persone (nel 1989 vivevano 715 uomini, 228 donne e 71 bambini, niente male per una città artica) fu abbandonata frettolosamente nel 1998 quando venne definitivamente chiusa la miniera (molteplici le cause: costi e difficoltà di estrazione, caduta del prezzo del carbone, incidente aereo del 1996 e motivi politici). Visitare la città fantasma di Pyramiden è come entrare nella macchina del tempo, un ritorno all’URSS: “Back in the URSS” è scritto su molte t-shirt in vendita. La maggior parte degli edifici si presentano come erano allora ad iniziare dalle costruzioni poste di fronte al porto: rovine, edifici pericolanti, carbone per le strade sterrate. Atmosfera da film apocalittico. A pochi minuti dal porto un monumento dai colori rosso e blu con il nome della città in bianco, scritto anche in caratteri cirillici, sovrasta il carrello che, leggenda dice, avrebbe trasportato l’ultimo carico di carbone. Strade parallele, enormi palazzi a forma di parallelepipedi, perfino la sede del KGB, una volta brulicanti di vita sono ora fantasmi di pietra. Ampia e vasta è la “Piazza Rossa” di Pyramiden dove spicca il busto di Lenin che osserva la città abbandonata ed il ghiacciaio Nordenskjold. Pochi passi ed una scalinata ci conduce all’interno della gigantesca casa della cultura. Piscina, campo di pallacanestro e calcetto, cine-teatro con pianoforte, scacchiera, tavolo da biliardo, aule scolastiche, biblioteca, non mancava nulla per allietare la dura vita dei minatori russi ed ucraini. Sono ancora appesi manifesti di eventi culturali e sportivi, disegni eseguiti dai bambini, fotografie, carte geografiche. Al primo piano la biblioteca è stata parzialmente convertita in negozio di souvenir e bar con musiche tradizionali come sottofondo, ma quando il barista intuisce la nostra provenienza ecco le canzoni dei Ricchi e Poveri e di Umberto Tozzi, da non credere, quasi dimenticati in patria, suonati al 79° parallelo! Diversi operai stanno ristrutturando alcune case e da alcuni anni è stato riaperto il vecchio hotel, Hotel Tulip: come a Longyearbyen si accede lasciando le scarpe, gli stivali all’ingresso ed indossando delle ciabatte. All’interno atmosfera calda: pareti rosse, soffitto bianco decorato, parquet chiaro e molto legno dovunque. Lungo un corridoio una stanza è adibita ad ufficio postale e negozio di souvenir. A quanto pare nell’hotel ci sono ospiti. Tutti gli edifici a causa del permafrost non hanno fondamenta, ma appoggiano su pilastri, un po’ come i rascard walser delle valli alpine e proprio al di sotto di un enorme palazzo le cui decine e decine finestre sono colonizzate da gabbiani con i loro nidi, vivono volpi artiche in attesa che qualche pulcino o uovo cada a terra. In prossimità del vecchio aeroporto ne abbiamo vista una, in abito invernale, in lontananza allontanarsi rapidamente proprio verso il “palazzo dei gabbiani”. Alle 19 siamo nuovamente sull’Arctica II e ci dirigiamo verso il Nordenskjoldbreen nell’Adolfbukta, in onore del grande esploratore svedese Adolf Eric Nordenskjold che per primo risolse il problema del passaggio di Nord-Est partendo da Goteborg sino allo stretto di Bering negli anni 1878-1879 (da ricordare la presenza a bordo della Vega, in qualità di tenente di vascello, dell’italiano Giacomo Bove). Il sole è alle nostre spalle ed illumina la baia e l’immenso ghiacciaio: oltre ai consueti bianco, azzurro e blu oggi si aggiungono il verde ed il giallo. Il mare è calmo e liscio, il cielo è di un blu limpido, terso, luminoso. C’è un’armonia primordiale, probabilmente l’unica nota stonata siamo noi. Ceniamo in un ristorante ed in una atmosfera a “cento stelle”, le “stelle” degli hotel e dei cuochi al confronto svaniscono, si dissolvono. Il fronte è impressionante, scogliere e ghiaccio per circa tre chilometri di ampiezza, gli innumerevoli crepacci e fenditure verticali colpiti dal sole creano giochi di luce. Le numerose fotografie non bastano a ricordare il momento perché la fotografia non restituisce lo stupore dell’inatteso, i suoni ed il profumo proveniente dall’unione di aria, acqua e ghiaccio. Noto che Knut di continuo osserva con attenzione ogni anfratto con il binocolo e la barca compie diversi spostamenti insoliti, certamente non per mostrarci più di quello che già ammiriamo. Più tardi ci racconta che nel pomeriggio, verso le 15, sono stati avvistati due orsi polari e probabilmente ora sono in qualche avvallamento a riposare. Avrei preferito non sapere nulla! Tramonto alle 21:42, alba alle 4:10, rapidamente la notte artica si avvicina, sono passati solo pochi giorni da quando il sole non riposava sotto l’orizzonte. C’è più gente sveglia questa sera e considerato che ci fanno compagnia Inger e Knut ne approfittiamo ascoltare racconti “svalbardiani”: animali, cacciatori, notti polari, imprese, ma anche tragedie. Peccato non conoscere la lingua inglese come si deve, quante domande avrei voluto formulare. Ci parlano dei loro rispettivi “veri” lavori, veniamo a sapere che le tasse sono inferiori rispetto alla Norvegia perché si fermano al 16% e che le donne all’ottavo mese di gravidanza devono trasferirsi nella madre patria a Tromso o presso i propri familiari non essendo l’ospedale attrezzato per tali evenienze (se non sbaglio c’è solo attività di odontoiatria ed ortopedia), l’ultimo nato alla Svalbard risale al 1966. Impossibile anche essere seppelliti a causa del permafrost che ostacolerebbe la decomposizione e le tombe più recenti del piccolo cimitero risalgono a circa settanta-ottanta anni fa. Chiedo a Knut notizie su cani, gatti, volpi e malattie infettive. Così vengo a conoscenza che a Longyearbyen ci sono ben due cani di piccola taglia, dei pinscher che lui userebbe volentieri per pulire i vetri della barca, sull’isola esiste la rabbia portata dalle lunghe migrazioni delle volpi russe ed è proibito portare alle Svalbard i gatti per motivi sanitari (topi e ratti infestati da parassiti trasmissibili ai gatti e successivamente all’uomo e per l’eventuale contagio con il virus della rabbia trasmesso dalle volpi) anche se c’è (o c’era, non ho ben capito) un micio a Barentsburg importato e registrato come volpe! Nel frattempo il sonno prende il sopravvento ai più. L’incredibile Flavio non smette di stupire, si allontana per qualche minuto e riappare sorridente con due bottiglie di Bordeaux e del cioccolato. Epico! Poco prima di mezzanotte anche Knut ed Inger si recano nella loro cabina, rimango solo nel bianco silenzio della baia di Skansbukta (skansen, parola norvegese che significa inclinato, proprio come si presenta l’ampio plateau della montagna sovrastante), mentre le renne, esemplari adulti e piccoli, incuranti della tarda ora pascolano poco sopra la spiaggia della baia. La loro caccia è regolamentata, ogni anno vengono assegnati poco più di trecento permessi e non tutti vengono utilizzati.
Alba a Skansbukta.
giovedì 05 settembre 2019
Risveglio in un paesaggio invernale, il bianco regna dovunque, dalle rive alle cime. Una volta sbarcati ci dirigiamo verso l’ingresso di un’antica, ormai inattiva, cava di gesso con un brevissimo tratto di ferrovia. A pochi passi, una grossa barca che avrebbe dovuto trasportare il gesso dalla spiaggia ad una nave di maggiori dimensioni, giace sulla spiaggia. Vicino alla cava una capanna in buono stato, attualmente utilizzata. Risaliti sul gommone, Knut ci conduce sulla riva opposta dove molte renne stanno pascolando, ma non appena ci avvistano, velocemente si allontanano. Anch’io mi separo dal gruppo per raggiungere alcune renne senza farmi notare, ma un fischio di Piero mi richiama alla disciplina. Comprendo e mi adeguo, tuttavia il mio spirito indipendente e solitario abituato alla solitudine per giorni anche in ambienti sconosciuti ed ostili, rimanere in gruppo mi ha richiesto un discreto sforzo di adattamento. Camminiamo sul mantello di neve alto qualche centimetro, nei momenti di silenzio il suono dei passi si confonde con quello dell’acqua che lambisce la riva. Impronte di volpe, molti uccelli in acqua, molti in volo stanno lasciando queste latitudini per climi più favorevoli. Prima di tornare a bordo fotografiamo un maschio di renna con un imponente palco. Il tenue sole cerca di trapassare le compatte nuvole stratiformi colorando il cielo, il mare, le montagne di blu, azzurro, giallo, arancione, mai ben definiti, ma sovrapposti l’uno con l’altro come delicati acquarelli. In tali circostanze il piacere della solitudine prende il sopravvento. Riprendiamo la navigazione, alle 13:15 siamo in prossimità di Tempelfjorden (le pareti delle montagne ricordano templi e cattedrali gotiche): il cielo giallo azzurro lascia spazio al bianco attraversato da linee nere orizzontali dei monti e delle rive per esaurirsi nel grigio del mare. Improvvisamente, non appena entriamo nel fiordo, il sole prepotentemente domina, paesaggio si trasforma, il cielo è blu cobalto intenso, le nuvole sono un ricordo, anche il mare si rallegra e muta il grigio in un gioioso verde bosco. Peccato non avvicinarci alle due enormi lingue di ghiaccio, Tunabreen e Von Postbreen, che con dolci pendii raggiungono le acque. Abbiamo incontrato numerosi ghiacciai, ma non mi stancherei mai di osservarli anche per ore, mi appaiono come scrigni di tesori. In lontananza un orso nuota speditamente, vediamo la sua testa fuori dall’acqua. Veniamo a conoscenza che è stato ancora avvistato uno degli orsi che ieri gironzolavano nei pressi del Nordenskjoldbreen. Sarebbe stato straordinario ed emozionante ammirare e fotografare un orso riposare o camminare sul ghiaccio o sulla neve, spero che questo mio desiderio si avveri. I colori, il mare, il sole, la neve, le montagne sono protagonisti di un incantevole ed ammaliante paesaggio, le mie parole sono inutili ed anche la migliore delle fotografie risulterebbe banale: è impossibile descrivere tale splendore. Con questa meravigliosa luce, mi decido di fotografare in volo uno dei molti pulcinella di mare dal becco variopinto e dal volo caratteristico (battono velocemente le ali perché piccole al confronto del corpo): arrivano alle Svalbard per nidificare a fine maggio e rimangono sino a fine agosto, metà settembre. Improvvisamente un branco di beluga: i lucenti dorsi senza pinna di queste bianche balene sinuosamente fuoriescono e rapidamente scompaiono mentre nuotano verso riva. Verso le 17 approdiamo a Longyearbyen, quasi tutti si recano in “città”, rimango sull’Arctica II e ne approfitto per preparare i bagagli. Ceniamo alle 20:30, per la prima volta Inger beve del vino mentre Knut ancora si astiene perché deve guidare verso casa, ben due chilometri; durante tutto il viaggio non hanno bevuto neppure una birra, ma ci assicurano che a casa recupereranno il tempo, o meglio l’alcool, perduto. Prima di salutarli consegnamo a loro una busta con i nostri sinceri ringraziamenti per come si sono prodigati per noi e sinceramente penso che tutto ciò che avrebbero potuto fare a nostro vantaggio l’abbiano fatto e se qualcosa non è andato per il verso giusto, come il guasto al dissalatore oppure le condizioni meteo, di certo non è dovuto ad una loro mancanza.
Beluga nell’Isfjorden.
venerdì 06 settembre 2019
Sono le 9.30, “stranamente” pioviggina, scendiamo dalla barca per un’ultima passeggiata per Longyearbyen e ultimi acquisti. Mentre torniamo la pioggia aumenta di intensità ed è accompagnata da piccoli chicchi di grandine. Sorrido quando ricordo che tutti i libri che ho letto relativi alle spedizioni artiche sono concordi nel riportare che in queste terre piove raramente e qualunque impronta, qualsiasi traccia rimane impressa nel terreno per anni. Da diversi anni si assiste ad un aumento delle precipitazioni: sulle pendici della montagna sovrastante è stato perfino installato un para valanghe dopo le slavine che hanno distrutto delle abitazioni nel 2015. Gli effetti del cambiamento climatico, ad iniziare dall’aumento delle temperature, sono ancora maggiori ed evidenti a queste latitudini. Alle 11.30 trasferimento in aeroporto, poco dopo le 23.00 siamo a Milano Malpensa, dopo un primo scalo ad Oslo ed un secondo a Francoforte, senza i nostri bagagli. Ci verranno recapitati a domicilio dopo qualche giorno.
tutto splendido,ma alle Svalbard come in altri luoghi artici ci andrei in inverno,sopratutto li,ai 78 gradi nord per godere appieno della fine della notte polare ai primi di febbraio,poi dipende sempre dagli scopi delle spedizioni.uno dei miei sogni sarebbe di passare un mesetto da meta^agosto a fine settembre ad Amundsen-Scott per assistere al repentino cambio di luce(oppure da neta^marzo a meta^aprile)dalla notte-giorno-notte ai 90″di latitudine del Polo…visto che al Polo Nord non esistono basi…come se invece potessi andare ad Amundsen-Scott 🙂
tutto splendido,ma alle Svalbard come in altri luoghi artici ci andrei in inverno,sopratutto li,ai 78 gradi nord per godere appieno della fine della notte polare ai primi di febbraio,poi dipende sempre dagli scopi delle spedizioni.uno dei miei sogni sarebbe di passare un mesetto da meta^agosto a fine settembre ad Amundsen-Scott per assistere al repentino cambio di luce(oppure da neta^marzo a meta^aprile)dalla notte-giorno-notte ai 90″di latitudine del Polo…visto che al Polo Nord non esistono basi…come se invece potessi andare ad Amundsen-Scott 🙂