IL VIAGGIO
Il rosso Airbus A 330 della Air Greenland, l’unico di questa piccola compagnia, atterra nell’aeroporto internazionale di Kangerlussuaq il mattino del 20 agosto. La pista è ancora quella costruita dai militari americani negli anni ’50 ed è l’unica di questo immenso territorio abbastanza lunga da consentire l’atterraggio degli aerei di questa classe.
Siamo in Groenlandia, o meglio in Kalaallit Nunaat, la “terra degli uomini”, l’isola più vasta e meno densamente popolata del pianeta (l’Australia è geograficamente considerata come una massa continentale). Su una superficie di più di 2 milioni di kilometri quadrati (circa 7 volte l’Italia) vivono meno di 60.000 persone, che corrisponde a una densità di 0.027 ab/km2. Kangerlussuaq è un villaggio di 500 persone posto in fondo a un fiordo lungo 100 km: infatti il nome vuol dire “il grande fiordo”. Per inciso, tutti i nomi di questo diario saranno in inuktitut, la lingua degli Inuit, tranne quelli canadesi noti solo in inglese. La prosecuzione per Aasiaat (“la città dei ragni”), che è il porto dove ci aspetta la nave per il viaggio nel Mar Glaciale Artico, è su un piccolo Bombardier Dash 8, aereo della categoria STOL (short take off and landing), in grado di atterrare e decollare su piste corte e talvolta sterrate come quelle che si trovano nei piccoli aeroporti groenlandesi.
Il viaggio prevede l’attraversamento dello stretto di Davis, che separa la Groenlandia dall’isola di Baffin in Canada, la navigazione lungo le coste dell’isola con approdi e sbarchi ove possibile, la visita dell’Auyuittuq National Park (“la terra che non si scioglie mai”), quindi il ritorno in Groenlandia all’altezza della famosa baia di Disko.
LA NAVE E L’EQUIPAGGIO
Nel porto di Aasiaat ci attende ormeggiata la motonave Cape Race. E’ un peschereccio d’altura costruito in Québec nel 1963 e successivamente convertito per ospitare spedizioni scientifiche, progetti cinematografici e gruppi di turisti. Lo scafo è stato appositamente riadattato e rinforzato in modo da permettere la navigazione anche in mezzo ai ghiacci. Ha un’autonomia di 7000 miglia (cioè può attraversare l’Atlantico due volte senza fare rifornimento), quindi non avremo bisogno di fare rabbocchi di carburante durante la navigazione. La nave è lunga circa 30 metri e ha una velocità di crociera di 9-10 nodi.
Può ospitare 12-15 persone. La sistemazione a bordo è abbastanza confortevole, con un lavabo privato in ogni cabina e servizi in comune. C’è un bellissimo salone di ritrovo con mobili di mogano e persino un pianoforte. Le piattaforme laterali ricordano un piroscafo da crociera, con ponte di sala a poppa sotto l’albero di mezzana e una piattaforma anteriore perfetta per le foto e le riprese video.
L’equipaggio è composto da 6 membri:
. il capitano Kim Smith, marinaio di lungo corso esperto nella navigazione tra i ghiacci dei mari artici
. il nostromo Jarren, eternamente provvisto di pipa fumante in bocca al punto da far sorgere il sospetto che le pipe siano un’estroflessione delle labbra, in radica o spugna secondo l’ora della giornata (quella di spugna, più elegante, la tiene per la sera). Immediatamente soprannominato “Capitan Trinchetto” dal gruppo.
. l’oceanografa Kate, paffutella e perdutamente innamorata del suddetto nostromo
. la cuoca Karen, navigatrice temporaneamente prestata al servizio di cucina, compito che svolge con diligenza ma col vizio di mettere curcuma e zenzero in qualunque pietanza
. il mozzo Darko, taciturno e tenebroso, prelevato da un castello della Transilvania e catapultato senza compiti ben definiti su questa nave in viaggio nell’Artico.
. il sesto componente dell’equipaggio è la gatta Dickie dal pelo fulvo e liscio, con tanto di scritta “Cape Race Crew” sul collarino, che della nave ha fatto la sua casa. La tendenza della gatta a perdersi nei porti dove la motonave attracca sarà causa di disvii e perdite di tempo per ritrovarla.
IL GRUPPO
Siamo in 15 apprendisti navigatori-esploratori: 12 italiani tra cui l’organizzatore Piero Bosco di Viaggi Polari, alcuni dei quali già si conoscono in seguito a precedenti viaggi nei territori polari, poi ci sono 2 ungheresi e un australiano.
TRAVERSATA DELLO STRETTO DI DAVIS
Si parte la sera stessa del 20 agosto, dopo avere imbarcato provviste e acqua. La traversata dello stretto di Davis dovrebbe durare circa 40 ore, dipendendo dalle condizioni del mare e dalla quantità di ghiaccio che troveremo. Dalla nave che lascia il porto si vedono le casette colorate di Aasiaat, una caratteristica di tutti i villaggi inuit.
LE BALENE SI DIVERTONO
Appena fuori dalla baia di Aasiaat, davanti all’isola disabitata Saqqarliup Nunaa , ci attende la prima sorpresa del viaggio. Un gruppo di megattere evoluisce a pelo d’acqua con salti e sbattimenti delle grandi pinne pettorali. Le balene sembra che stiano giocando: sbattono le pinne sull’acqua con veemenza, e a un certo punto una si esibisce in un salto mortale balzando fuori dall’acqua per almeno 2 metri, poi ricade sollevando altissimi spruzzi d’acqua. La sensazione è che i giganti del mare si stiano proprio divertendo. Questo esercizio dei cetacei è noto come breaching, e consiste nel lanciarsi in aria con la testa in avanti ricadendo in acqua con un tuffo. E’ il comportamento più spettacolare che le megattere compiono in superficie, ed è l’unico modo di vedere l’animale intero.
Avevo visto queste scene solo nei documentari TV e sulle pagine dei dépliant delle agenzie di viaggio. In verità avevo persino dei dubbi che questi giganteschi cetacei potessero realmente saltare fuori dall’acqua. Adesso penso che abbiamo avuto una grande fortuna ad assistere a questo spettacolo, che normalmente richiede ore e ore di appostamento e paziente attesa.
La traversata prosegue durante la notte. Tramonto a tinte giallo-arancio e mare calmo. All’alba del giorno dopo, in una bella giornata di sole, cominciamo a vedere i primi “floes” (lastroni di ghiaccio galleggianti, in sostanza piccoli iceberg). Con la luce del sole si scorgono bene le enormi masse sommerse, il cui colore turchese stacca nitido tra il bianco del ghiaccio e il blu profondo del mare.
Giungono però notizie poco rassicuranti dalla capitaneria di porto di Qikiqtarjuaq (“grande isola”), che è il porto canadese dove siamo diretti per le pratiche doganali. Il pack si sta compattando e sta scendendo verso sud. Mano a mano che la navigazione prosegue la consistenza del pack si fa più spessa e la Cape Race deve procedere a rilento, a 1-1.5 nodi. La nave si fa strada a fatica tra blocchi di ghiaccio di cui è difficile individuare la porzione sommersa e ogni tanto ne sbatacchia qualcuno qua e là con schianti fragorosi. La carena rinforzata fa il suo dovere, lasciando solo qualche traccia di vernice rossa sui floes impattati. La velocità della nave si è ridotta di molto e la traversata si prospetta più lunga del previsto.
Durante la navigazione facciamo il safety briefing, che prevede la vestizione delle tute impermeabili di galleggiamento. Teoricamente, in caso di emergenza bisognerebbe indossarle rapidamente e saltare giù dalla nave mentre qualcuno nel frattempo avrà gonfiato le scialuppe. Visti i tempi e l’impaccio generale con cui abbiamo eseguito questa operazione, speriamo vivamente che durante il viaggio non succeda niente. Poi vorrei proprio vedere chi si getta giù dalla nave in un mare gelido a 0 °C o giù di lì.
INCONTRO CON NANUK, L’ORSO POLARE
Passiamo il giorno 22 ancora in lenta navigazione in un pack che ormai è stabilmente al 50-60% della copertura marina. Il sole e la spettacolarità del mare ghiacciato non rendono affatto noiosa la traversata. Fulmari, gabbiani, urie e qualche gazza marina ci accompagnano lungo il percorso.
Verso le 5 di sera notiamo una macchia nera su un blocco di ghiaccio in lontananza. Mano a mano che ci avviciniamo, identifichiamo la macchia nera come una foca accanto alla quale si scorge una figura bianca che si muove. È il nostro primo incontro con nanuk, l’orso polare! L’orso però è visibilmente impaurito dalla grande massa nera della nave che si avvicina, abbandona la foca sul ghiaccio e si getta in acqua fuggendo precipitosamente. Questo non ci impedisce di riprenderlo nella sua nuotata fluida e elegante, fino a quando la nave può seguirlo perché per quanto abile sia il pilota è chiaramente impossibile fare lo slalom tra iceberg galleggianti. Sul primo floe rimane la carcassa della foca mezza divorata. Mentre ci allontaniamo, ognuno di noi si augura che l’orso torni indietro e possa terminare la cena in santa pace. Purtroppo questo sarà l’unico orso polare che vedremo.
Il tramonto del giorno 22 è di una bellezza sconvolgente. Il sole scende all’orizzonte dietro strisce parallele di nuvole, che formano anelli e stratificazioni quando vengono attraversate dalla sfera arancione. Sembra un lontano pianeta uscito dalla grafica di un disegnatore di Guerre Stellari.
BLOCCATI NEL PACK
Nella notte i sussulti, le fermate e le ripartenze della nave si fanno sempre più frequenti. In cabina gli sballottamenti si avvertono chiaramente, al punto che qualcuno fatica a prendere sonno. Alle 5 di mattina chi è sveglio sente distintamente il rumore dei motori che spingono a vuoto. Salgo in cabina di guida e davanti agli occhi appare uno spettacolo preoccupante. La nave è completamente circondata da una morsa di pack a perdita d’occhio, che adesso si può stimare all’85-90%. Lo scafo non riesce a perforarlo, anche perché la struttura della Cape Race, pur essendo stata rinforzata, non è certo paragonabile a quella di un rompighiaccio, né i motori erogano la potenza richiesta per queste prestazioni. Non andiamo né avanti né indietro.
La sera prima il capitano aveva ricevuto dalla marina canadese due rotte possibili, due fenditure nel pack che avrebbero dovuto consentirci di raggiungere Qikiqtarjuaq, dove eravamo attesi per fare dogana e registrare l’ingresso della nave e dei passeggeri in Canada. Ha scelto quella più a sud, ma le indicazioni erano evidentemente sbagliate, oppure gli spostamenti della calotta di ghiaccio hanno seguito una direzione e una velocità diversa da quella prevista dalla marineria di Toronto. Sta di fatto che siamo bloccati nel ghiaccio.
Dopo molti tentativi, con le macchine indietro tutta, alla fine la Cape Race riesce a sganciarsi dalla tenaglia di ghiaccio. Riusciamo a fatica a prendere una rotta verso sud, cercando in sostanza di anticipare l’avanzamento della banchisa che sta andando nella stessa direzione. Procedendo lentamente a zigzag tra i ghiacci e la nebbia la motonave riesce a puntare in direzione sud con un’andatura lenta ma stabile.
L’ISOLA DI BAFFIN
Dopo ore e ore di navigazione nel ghiaccio, finalmente verso le 10 di mattina di domenica 23 agosto l’urlo “terra!!!” risuona dalla nave. Scorgiamo in lontananza un altissimo promontorio avvolto dalla nebbia. E’ Cape Searle, un punto dell’isola di Baffin molto più a sud della regione dove eravamo diretti. Siamo nel Nunavut, il territorio artico canadese.
La scogliera di Cape Searle, un impressionante contrafforte a strapiombo alto forse 200 metri e perpendicolare sul mare, si staglia nella nebbia. Ricorda i Cliffs of Moher d’Irlanda. Costeggiamo la penisola di Padloping per un lungo tratto, accompagnati da stormi di urie che volano veloci in fila indiana sulle onde, lambendo enormi iceberg grandi come stadi di calcio, che si sono staccati da chissà quale ghiacciaio di queste lande.
La Cape Race ferma ogni tanto i motori. C’è un silenzio irreale, rotto solo da qualche raro strepitio di gabbiani. Gruppi di balene franche in lontananza, molto difficili da avvicinare e fotografare perché questa specie emerge per pochissimo tempo e non punta mai verso il fondo con la codata tipica invece delle megattere. Iceberg lunghissimi, lisci e piatti come immense tavole galleggianti. Pochissime navi passano da queste parti, forse qualche cargo ogni tanto. Forse qualche peschereccio. Molto probabilmente nessuna nave turistica è mai stata qui. Il mancato possesso dell’autorizzazione frontaliera costringe il capitano alla decisione di non scendere a terra con lo zodiac. Forse è stato meglio così, per rispettare la verginità di questa terra, i suoi silenzi e i suoi canyon incalpestati che ci accontentiamo di ammirare dalla nave.
Nel frattempo il sole si è fatto strada tra le nuvole, che adesso si abbassano attorno alle montagne di Baffin posandosi sopra le cime come una corona, per poi discendere formando un anello e quindi dissolversi con l’innalzamento della temperatura. I raggi di sole regalano un tepore che ci spinge a metterci in maglietta sul ponte superiore anche se la temperatura non è più di 10 °C. Anche la gatta Dickie gradisce e si stende al sole.
RITORNO VERSO LA GROENLANDIA
Sono passate da poco le 9 di sera quando l’ancora appena calata viene precipitosamente ritirata e i motori si mettono in moto. Che sta succedendo?
Da Toronto è arrivata l’ingiunzione di lasciare immediatamente le acque territoriali canadesi. La nave non è stata registrata, noi non siamo stati registrati. In sostanza, siamo degli abusivi. Sulla nave i paragoni con le barche dei migranti ricacciate indietro dalla Libia si sprecano.
Si riparte quindi per riattraversare a ritroso lo stretto di Davis. La traversata del braccio di mare, in un punto molto più a sud di quello che era all’origine nel piano di viaggio, è lunga e tremenda. Onde di 3-4 metri per 2 giorni, mal di mare dopo solo cinque minuti che stai in piedi. L’unica salvezza è rimanere sdraiati in cabina cercando una posizione dove il rollio e il beccheggio si sentono meno.
SISIMIUT
Finalmente raggiungiamo la Groenlandia all’altezza di Sisimiut (“la città delle tane di volpe”), porticciolo di pescatori nella regione groenlandese di Qeqqata poco sopra il circolo polare artico, alle 5 di mattina di martedì 25 agosto. L’ultima parte della traversata è stata con mare calmo, ma è presto e tutti dormono cercando di recuperare il sonno perduto, così sono l’unico sveglio.
Cielo a strisce rosse nella baia di Sisimiut, un’alba che preannuncia una giornata di sole. Pescherecci carichi di gamberi e granchi si affollano già a quest’ora sulla banchina del porto, scaricando casse di crostacei che vengono immediatamente portate nei container termorefrigerati in attesa delle navi che li distribuiranno in tutto il mondo.
Questa costa della Groenlandia è pescosissima. Qui a Sisimiut si pescano soprattutto crostacei e molluschi (capesante, calamari e polpi), in altura aringhe e merluzzi, più a nord è il regno degli halibut. A bordo della nave ho trovato del nylon, un pesciolino finto d’acciaio e una scatola con girelle e moschettoni. Riesco a raffazzonare una lenza e a gettarla dalla sponda della nave, nel porto. I porti sono notoriamente un punto dove si raduna sempre del pesce. Il risultato complessivo di questa pesca improvvisata (in parte qui a Sisimiut, in parte in un’altra baia più a nord) saranno 18 merluzzi, 6 bellissimi scorpionfish (l’equivalente artico di quelli tropicali, molto grandi e simili al nostro scorfano) e un po’ di stelle marine. Ringraziamenti da parte della cuoca, sguardi di odio del mozzo che deve pulire e sfilettare il pesce per congelarlo.
Ci fermiamo a Sisimiut tutto il giorno, passeggiando per il paesino tra casette colorate e laboratori di artigiani che fanno manufatti in pelle di foca e osso di balena. Fuori dal paese ci sono le cucce dove vengono tenuti i cani huskies, gli adulti legati e i cuccioli in libertà che si aggrappano ai vestiti per giocare non appena fai un cenno di confidenza. Hanno già i dentini aguzzi, e siccome non è che mordano proprio per finta qualche segno sulle mani rimane. Quando il padrone porta la quotidiana razione di carne di foca si mettono a ululare al cielo reclamando la propria parte: geneticamente questi sono dei lupi.
Si mangia in un ristorante locale: pranzo a base di hamburger di carne di renna e bue muschiato, neanche tanto male.
Spettacolare tramonto fiammeggiante nel cielo.
La nave rimane a Sisimiut anche per la notte.
DISKO BAY
Si riparte da Sisimiut verso il top della Groenlandia: la famosa, reclamizzatissima e strafotografata baia di Disko. Lungo il percorso, attraverso i fiordi e gli isolotti che circondano Kangaatsiaq, Aasiaat e Ikamiut, incrociamo branchi di balene franche e alcune minkes, le piccole balenottere minori che non superano i 10 metri. L’arrivo a Ilulissat, centro principale della baia di Disko, è preceduto da lontano dalla visione dei banchi di iceberg che flottano nella baia. Si vedono già da kilometri di distanza. L’eccitazione aumenta mano a mano che ci si avvicina.
E’ già sera quando facciamo il primo giro tra gli iceberg. Dalle montagne che delimitano il piccolo golfo si diffonde la stupenda luce arancio e indaco tipica delle regioni polari, che si mescola al turchese della parte sommersa degli iceberg e conferisce riflessi inimmaginabili alle sculture di ghiaccio. Il giro in barca tra queste maestose cattedrali di ghiaccio, alte più di 100 metri e lunghe oltre 500, riempie gli occhi e la mente di ammirazione e rispetto per quanto la natura è capace di creare. In alcuni iceberg l’erosione dell’acqua salata ha aperto grotte, spaccature, canali di acqua che assume tutta la gamma di colori possibili dal celeste al blu oltremare. Le increspature del mare vi si frangono contro con un leggero sciabordio. Ci passiamo vicino quasi a sfiorarli, mi domando se non sia pericoloso dato che sotto la parte emergente si nasconde una massa sette volte maggiore di quella visibile. Sinistri pensieri mi assalgono quando vediamo in lontananza un blocco di ghiaccio crollare in acqua con fragore, spezzando quello che fino allora era stato l’unico rumore: il singhiozzo dei motori della nostra imbarcazione.
Capisco, finalmente, perché gli inuit hanno quasi cento parole diverse per definire il ghiaccio, costituito com’è da una miriade di striature e infiniti colori: bianco, grigio, blu, indaco, azzurro, celeste, turchese, verde chiaro, prugna, lilla, rosa. La possanza degli iceberg ti domina, ti schiaccia, ti sovrasta. Ti accorgi di avere lo sguardo sempre rivolto verso l’alto, verso le sommità delle montagne di ghiaccio che vertono al cielo. Ci si sente piccoli come pulci, impediti e limitati, pur in possesso di una tecnologia che attraverso gli obiettivi sofisticati e i sistemi di ingrandimento e puntamento delle macchine fotografiche e delle telecamere digitali ti permette di osservare meglio le dimensioni e i contorni di contorni di queste meraviglie che qualcosa o qualcuno è stato capace di creare.
Sono centinaia e centinaia gli iceberg che, staccatisi dalla calotta glaciale, raggiungono il mare dopo avere disceso per circa 30 km il Kangia Icefjord, il fiordo di Ilulissat. Quando il fronte del ghiacciaio Sermeq Kujalleq (“il ghiacciaio del sud”), che vanta la maggiore produzione di iceberg di tutto l’emisfero settentrionale, viene a contatto con l’acqua marina, la temperatura più calda del mare provoca il distacco dei blocchi di ghiaccio, dando origine a monolitici iceberg. Paradosso della natura, l’acqua è una sostanza che allo stato solido pesa meno che allo stato liquido, per cui gli iceberg galleggiano. Una volta in mare aperto le correnti li spingono verso sud.
L’insieme di questi iceberg di dimensioni e forme stravaganti forma il più strano e meraviglioso dei musei a cielo aperto, costituito da migliaia di monumenti di ghiaccio: obelischi, macigni, palazzi, colonne, cime, archi, pinnacoli. Ogni iceberg è in sé un’opera unica: una meravigliosa opera d’arte della natura. Qui, per un attimo, l’era glaciale sembra ancora realtà. Non si può immaginare la grandezza che raggiungono. Sono alti cento metri e più, lunghi un chilometro e più.
Il fiordo di Ilulissat (Ilulissat Kangerlua in lingua inuit) è lungo 40 km dal mare fino al ghiacciaio, che è il più mobile di tutto l’emisfero nord. Avanza circa 20-25 metri al giorno e ha una produzione di ghiaccio annua di 35 miliardi di tonnellate. Gli iceberg sono talvolta così grandi (possono raggiungere chilometri) che si appoggiano sul fondale del fiordo per anni fino a quando non si rompono.
Quando gli iceberg riescono a raggiungere la fine del fiordo cominciano a navigare in mare aperto inizialmente in direzione nord per poi venire investiti dalla corrente meridionale che li fa ritornare a sud verso l’oceano Atlantico. I più grandi iceberg si sciolgono completamente solo alle latitudini di 40° – 45°N (a sud della Gran Bretagna, circa all’altezza di New York).
Così un po’ più di un secolo fa, la notte fra il 14 e il 15 aprile 1912, un enorme blocco di ghiaccio staccatosi proprio da queste coste affondò poco a sud dell’isola di Terranova le speranze e i sogni di oltre 1500 viaggiatori saliti sul transatlantico Titanic per il suo viaggio inaugurale da Southampton a New York, dove la nave non arrivò mai.
Gli iceberg di Disko bay sono un grandioso spettacolo naturale unico al mondo, uno di quegli spettacoli di cui si dice “vale il viaggio”.
Dopo il giro tra i monumenti di ghiaccio la Cape Race cala l’ancora davanti al molo di Ilulissat, tra barchette di pescatori in frenetico spostamento per la battuta serale. Mentre all’orizzonte le nuvole si tingono di arancio e violetto nel tramonto polare, l’arzillo comandante Kim Smith (65 anni) stupisce tutti: si fa una bella sauna che conclude con un sano tuffo nell’acqua gelata del mare, sguazzando allegramente tra blocchi di ghiaccio galleggianti. Penso a noi che ritraiamo il piedino dopo avere tastato la temperatura dell’acqua della doccia…. Questi sì che sono uomini!!!
Ilulissat (“la città degli iceberg” in lingua inuit) è una città abbastanza grande, contando 4.700 abitanti. Le case, come in ogni villaggio inuit, hanno tutte colori sgargianti: blu, azzurro, rosso, arancione, giallo, verde. Forse questo aiuta ad alleviare le lunghe notti dell’inverno artico e le cupe giornate di brutto tempo. Le strade sono un continuo saliscendi e terminano ai bordi del centro abitato. Lungo le vie qualche banchetto vende pezzi di carne di foca. Fuori dalle case ci sono i tralicci con appesi merluzzi e halibut a essiccare.
C’è una sola industria e si trova al porto. Si tratta della Royal Greenland, che inscatola gamberetti e altro genere di pesce, dando lavoro alla maggior parte della popolazione.
Molte barche di pescatori sono ormeggiate al porto. Sono in prevalenza motoscafi provvisti di motori fuoribordo di potenza esagerata, fino a 150-200 HP. Ci sono anche alcuni piccoli pescherecci con pilotina. La presenza degli iceberg fa sì che i grandi pescherecci d’altura non possano avvicinarsi alla città: questo fatto è l’assicurazione per il futuro dei pescatori di halibut di Ilulissat, perché loro con piccole imbarcazioni riescono a muoversi liberamente tra le masse di ghiaccio.
La baia è ricchissima di halibut, la pregiata sogliola atlantica che qui nell’Artico raggiunge dimensioni ragguardevoli. I pescatori parlano inglese. La cosa all’inizio mi sorprende, poi però penso che l’hanno imparato per potere meglio intrattenere rapporti commerciali con le società che conservano e rivendono il pesce. Capisco subito che hanno voglia di parlare, di raccontare qualcosa. Mi dicono che adesso è già raro prendere un halibut di 10-15 kg, ma che in passato era normale catturare esemplari attorno ai 40-50 kg. Stanno preparando le lenze: delle lunghissime palamitare di 6-700 ami, lunghe fino a 2 km, che innescano con sardine o piccole aringhe. Un pescatore invece taglia a pezzi un merluzzo di almeno 3-4 kg e innesca con quelli gli ami delle sue lenze. Di per sé, il merluzzo sarebbe già un pesce con alto valore commerciale, soprattutto se di quelle dimensioni. Ma qui tutto è finalizzato alla cattura dei pregiati halibut, molto richiesti dal mercato, quindi anche il merluzzo diventa buono come esca.
Provo a chiedere ai pescatori se mi portano fuori a pescare nella baia, ma ottengo solo un gentile diniego. Nessuno di loro può interrompere la preparazione pomeridiana delle lenze che verranno deposte nella baia alla sera e ritirate al mattino. Sono sicuro che con una adeguata opera di convincimento a base di corone danesi si persuaderebbero a farmi uscire con loro al mattino per la salpa delle palamitare. Sarebbe un’esperienza eccitante, ma noi abbiamo in programma il trekking lungo la costa.
Alcuni facili percorsi di trekking si snodano attorno al centro abitato. Il sentiero più bello è quello giallo, che inizia appena dopo le ultime case a sud e prosegue lungo la scogliera per una quindicina di kilometri. Si attraversano piccoli avvallamenti dove si trovano le antiche case groenlandesi coperte di erbe e muschio, poi il sentiero costeggia l’eliporto e finalmente si raggiunge il fronte del ghiacciaio Sermeq Kujalleq, proprio nel punto dove si staccano gli immani blocchi di ghiaccio che diverranno iceberg flottanti. Ho fatto questo percorso al mattino, con una nebbiolina leggera che ovatta e ammorbidisce le immagini della baia, come un batuffolo misterioso da cui ogni tanto sbucano per magia le macchie di colore dei pescherecci azzurri e verdi.
I sentieri rossi e blu invece si dirigono verso l’interno. Tutti hanno punti di osservazione da cui si aprono sensazionali scorci panoramici sulla baia, sugli iceberg e sulle colorate casette degli inuit. Un sentiero poco segnalato e poco praticato, ma che consiglio a tutti di fare, è quello dietro l’hotel Arctic, nella zona nord del villaggio. Inizia giusto al termine della passerella panoramica di legno e prosegue lungo il promontorio settentrionale della baia di Disko. E’ segnalato solo all’inizio, con blocchi di pietre nude, poi bisogna arrangiarsi e trovare i varchi giusti per proseguire. Non fatevi ingannare dall’apparente vicinanza del promontorio: per raggiungerlo ci vuole ameno un’ora. Da nord si può vedere meglio lo sviluppo del fronte del ghiacciaio nel suo complesso. Da qui ho scattato le foto della Cape Race ormeggiata che poi ho inviato al comandante Kim.
Durante il trekking conviene guardare anche per terra. Scoprirete muschi, licheni arancio vivo, fiorellini colorati e persino delle bacche simili a mirtilli.
Alla sera, squarci di luce si aprono tra le nuvole e un nuovo impressionante tramonto riempie lo sguardo di colori incredibili. E’ come se una invisibile tendina dividesse in due l’orizzonte. A nordovest il sole diffonde bagliori arancione tra riflessi indaco e color prugna, a sudovest il cielo si tinge di un rosso cupo intenso che fa venire i brividi. Spettacoli che rimarranno indelebili nella mente.
Ilulissat convive oltre che con i ghiacci con una comunità di quasi 6.000 cani. Sono gli eskimo, razza pura. Infatti non è possibile portare alcun cane in Groenlandia, proprio per preservare questa specie, così forte da sopportare le intemperie del clima e resistere a lunghi digiuni. Di vitale importanza nell’economia della città, servono a trainare le slitte nel periodo invernale, in particolare per andare a cacciare. I cani da slitta fanno parte del paesaggio. Si sentono abbaiare e ululare di continuo. Vivono legati a catene all’incirca di sei metri e il loro spazio vitale è un misero fazzoletto di terra. Solo ai cuccioli e alle femmine in attesa di partorire è consentito girare liberamente per la città. I cani vecchi, ormai inutili, sono lasciati deliberatamente senza collare, affinché diventino facile preda degli accalappiacani comunali che li abbattono a colpi di fucile.
Ilulissat merita almeno una permanenza di tre giorni, da trascorrere con giri in barca tra gli iceberg (imperdibile quello al tramonto), passeggiate lungo la scogliera e la visita ai ghiacciai più a nord, come l’Eqip Sermia di cui si parla dopo. Ci si può accordare con i pescatori di halibut per seguirli durante le fasi più importanti della pesca.
Da annoverare tra i luoghi più sperduti del pianeta, questo villaggio è da visitare non solo per l’arte eccelsa della natura espressa attraverso i suoi iceberg che fluttuano nella baia antistante, ma anche per l’insolito stile di vita della sua gente. O semplicemente perché fa pensare.
GHIACCIAIO EQUIP SERMIA
Lasciamo Ilulissat il 29 agosto, puntando verso nord. Superiamo la baia di Bredebugt, l’insediamento di Oqaatsut e il sistema di fiordi di Pakitsoq. L’obiettivo è raggiungere il ghiacciaio Eqip Sermia, che si trova una quarantina di miglia a nord di Ilulissat, in fondo allo stretto di Ataa. L’attraversamento del fiordo non è affatto tranquillo. Il mozzo Darko, messo al timone per qualche ora, riesce a centrare in pieno l’unico iceberg presente in questo tratto di mare largo 1 kilometro. Rapida reazione del nostromo Jarren che innesta immediatamente la marcia indietro, ma ormai l’impatto c’è stato. Per fortuna le conseguenze sono minime: il nostromo verificherà immergendosi che i danni sono limitati a un’ammaccatura della carena, tale da non pregiudicare la prosecuzione del viaggio.
Immenso e spettacolare, il ghiacciaio si dispiega su un fronte di circa 1 km innalzandosi fino a 60-70 metri di altezza. E’ un gigante di ghiaccio in continuo movimento: ogni tanto pezzi del fronte si staccano cadendo pesantemente nell’acqua con un grande boato.
La Cape Race si avvicina fino a una cinquantina di metri dal ghiacciaio, facendosi largo tra i lastroni galleggianti. L’attesa per ammirare la caduta delle masse di ghiaccio in sfaldamento non è lunga e la possiamo osservare in più momenti.
Durante il tragitto di ritorno scorgiamo delle focene che nuotano tra i fiordi.
QEQERTARSUAQ
L’ultimo giorno di permanenza in terra groenlandese, domenica 30 agosto, è dedicato alla visita dell’isola di Disko, o meglio Qeqertarsuaq in inuit, nome che in effetti hanno in lingua locale tutte le isole della provincia groenlandese di Qaasuitsup.
Qeqertarsuaq è anche il nome del villaggio (1100 abitanti) che è il centro principale dell’isola. In passato era un porto per la caccia alle balene, oggi pratica abbandonata per forme di caccia e pesca tradizionali.
Nei pressi del paese vi sono la bella vallata-canyon di Blaesedalen e il ghiacciaio Lyngmark, dove una parte del gruppo decide di recarsi per un trekking. Io e altri preferiamo invece una visita del centro abitato. Alle 10 c’è la messa della domenica mattina, celebrata in rito luterano, al termine della quale c’è la sorpresa di un battesimo. E’ un’occasione unica per vedere da vicino gli originali costumi inuit, indossati dalla madre del neonato, dalla madrina e dalle altre donne che partecipano alla cerimonia. Il costume ha una policromia stupenda, con una mantella di perline e striscioline di pelle di foca colorate, fascia rossa alla vita, pantaloni neri, orli di pizzo e gambaletti bianchi con frange di pelo di orso bianco e fregi multicolori.
Di fronte si stagliano le colline del fiordo, le cui fenditure e vallate verdeggianti ricordano molto l’Islanda. La Cape Race è ormeggiata nella baia, in attesa di riprenderci a bordo per il ritorno a Aasiaat e poi a casa
Nel complesso, un viaggio eccezionale e spettacolare in luoghi dove ci si rende conto di quanto siano formidabili e a volte incontrollabili le forze della natura. Le luci di queste terre riempiono gli occhi fino a non farci stare più niente.
l,idea di farmi d,estate un escursione indimenticabile……
spero ci sia postp…..