VERSO ILLULISAT
E’ il 27 marzo quando un aereo della Greenlandair ci scaraventa dalla mondanità di Copenhagen al desolato villaggio Kangerlussuaq, sulla costa occidentale groenlandese, dove durante la seconda guerra mondiale gli americani avevano realizzato quello che oggi è l’aeroporto internazionale del Paese. L’uscita è traumatica: è come essere entrati in un frigorifero, e un vento secco e gelido sembra volersi prendere gioco del nostro equipaggiamento tecnico per alpinismo d’alta quota, facendoci rabbrividire. Siamo in sette ad aver scelto di vivere questa ancor quasi invernale avventura groenlandese, ma per i viaggi in slitta è la migliore perché il ghiaccio della banchisa è ancora solido, e la notte polare è ridotta a poche ore. Ciò nonostante, dinanzi a quel gelo non possiamo non porci delle domande sulla sensatezza di quel viaggio. In effetti, lì è tutto repulsivo: intorno all’aeroporto poche case in legno senza alcun abitante per la strada: solo vento e polvere, sollevata da una desolata tundra sabbiosa cosparsa di lastre di vecchio ghiaccio vivo, grigio e sporco.
In Italia avevo letto che quell’inverno, a febbraio, nell’Artico aveva fatto un caldo eccezionale, che aveva sciolto la neve trasformando tutto in un unico pantano. Poi era arrivato il gelo e il pantano s’era trasformato in ghiaccio vivo. Per migliaia di renne e di buoi muschiati, usi brucare scavando con le corna nella neve, questo aveva significato la fine, ed era stata un’ecatombe.
Il giorno seguente prendiamo il rosso quadrimotore per la baia di Disko. All’inizio sotto di noi scorrono spoglie montagne arrotondate intervallate dalle distese grigio-azzurre dei laghi ghiacciati, man mano che risaliamo versi nord questi ghiacci però si allargano, coprono tutta la superficie terrestre e infine si stendono anche sul mare dove, con grande emozione, vedo navigare i primi immensi iceberg: dall’alto abbaglianti macchie bianche in un mare blu cobalto, ma che intuisco essere di dimensioni impressionanti.
Quando ormai il ghiaccio la fa da padrone ecco comparire le colorate casette di una cittadina incrdibile: Ilulissat. E’ un posto, questo, nel quale bisogna andarci per credere che sia vero. Le coloratissime casette in legno si raccolgono nel fondo di una baia nella quale navigano iceberg di ogni dimensione, il porto è per metà ghiacciato e decine di barche sono imprigionate nel ghiaccio dall’autunno scorso.
NEL REGNO DEL GHIACCIO
Usciti dal piccolo aeroporto – una semplice baracca – troviamo ad attenderci Silvan, un italiano trasferitosi lì anni orsono, divenuto il principale tour operator della zona. Immediatamente ci porta con un fuoristrada nel suo ufficio, quasi nel centro cittadino, dove concordiamo il programma: dapprima un’escursione nella baia di Disko su una baleniera, quindi un viaggio in slitta di otto giorni che ci porterà a risalire verso settentrione l’immensa calotta ghiacciata della Groenlandia, il mitico “inlandsis” dove, per gli inuit, stanno gli spiriti del male. Fuori dall’ufficio, non appena depositati i bagagli in una casetta rossa dove alloggeremo, decido di fare un giro per la cittadina e… scopro che le strade sono coperte non da neve ma da ghiaccio vivo verde-azzurro, sul quale è difficilissimo stare in equilibrio. Lo scopro perché, non appena affronto una lievissima discesa, i miei piedi partono verso l’alto, il corpo di conseguenza piomba verso il suolo e d’istinto tendo il braccio destro verso il basso atterrando così prima sul polso, e poi su tutto il resto. Quando mi rialzo un dolore lancinante mi risale il braccio, non riesco a muovere la mano e sul polso inizia a formarsi una fascia rosso-viola, segno che all’interno c’è stata una lesione. Che la mia avventura groenlandese sia finita lì? Non voglio arrendermi, e fasciatomi alla meglio il polso infilo con mille difficoltà la mano nella spessa moffola, ripromettendomi di non dire nulla per non rischiare di rimanere a Ilulissat. In fondo – mi dico – sono mancino, e mi arrangerò con la sinistra.
Il pomeriggio compiamo una breve escursione fino al vecchio cimitero, semplici croci in legno racchiuse in una valle battuta da un vento gelido e tagliente. Da qui risaliamo con la massima attenzione un promontorio – tutto è ghiaccio vivo – e, giunti in cima, restiamo letteralmente senza fiato: dinanzi a noi il mare è ricoperto da un caos di ghiacci di ogni dimensione, comprese vere e proprie montagne al confronto delle quali anche la più grande nave da crociera sembrerebbe poca cosa. Né prima, né dopo, ho mai avuto modo di assistere a uno spettacolo della natura così grandioso: certe cose bisogna però vederle, è impossibile descriverle, e le foto non rendono la grandiosità di un panorama fatto anche di luce, di vento e… di gelo!
NELLA BAIA, FRA GLI ICEBERG.
Il giorno seguente il bravo Silver ci ha procurato una piccola baleniera rinforzata, con la quale compiere l’escursione fino al piccolo villaggio di Oqaatsut, dove presso una famiglia inuit pranzeremo con l’arrosto di foca. La Groenlandia non è paese per gli ecologisti di città: gli abitanti del posto si nutrono con quello che offre la natura e quindi di foca, di balena e pure di orso bianco. D’altra parte sono in così pochi, che l’impatto della loro caccia sull’ambiente è nullo. Ciò nonostante, succubi dei nostri sensi di colpa ci intestardiamo a voler negare loro il diritto di vivere come hanno sempre vissuto, e che rappresenta la loro stessa identità. All’aumento delle proibizioni sulla caccia crescono così in modo esponenziale fra gli inuit i casi di alcoolismo, e anche di suicidio.
L’escursione nella baia di Disko è un’esperienza che rimane: per uscire dal porto dobbiamo attendere che il vento e le correnti scompaginino un po’ il ghiaccio che ne ostruisce l’entrata, poi partiamo sfiorando iceberg alti ben più della piccola baleniera. Lo spettacolo è davvero mozzafiato, e non si sa dove guardare.
Guadagnato il largo, iniziamo a navigare fra quelli che non sono più i soliti iceberg ma immense montagne galleggianti, che lentamente vanno verso il mare aperto. Avevo letto che qui si formano gli iceberg più grandi dell’Artico, e ora non ne dubito. L’unico problema è stare lì sul ponte – la baleniera è così piccola da non avere luoghi chiusi – perché in mare il gelo è veramente difficile da sopportare, e gli schizzi delle onde ricoprono tutto di un sottile strato di ghiaccio scivoloso.
Verso mezzogiorno entriamo nel fiordo in fondo al quale c’è il villaggio che ci aspetta. Ora il mare è completamente gelato, ma la baleniera avanza lasciando dietro a sé uno stretto canale di acqua libera. Man mano che ci inoltriamo nel fiordo il ghiaccio aumenta di spessore, la baleniera arranca e infine è costretta ad arrestarsi. A questo punto il capitano cala una scaletta, e proseguiamo a piedi. Incontriamo un ragazzino inuit: ha fatto un buco nel ghiaccio e sta pescando. Giunti a Oqaatsut, lo troviamo vuoto. Il vento secco e tagliente spazza le strade sollevando nuvole di ghiaccioli che pungono come spilli, e su lunghe rastrelliere pesci di varia grandezza e tipo sono posti ad essiccare. Il lavoro ora lo sta facendo il vento, e gli uomini possono starsene – giustamente – al caldo.
Rientrati a Ilulissat la notte – che arriva verso le ore 22 – assistiamo a un’altra meraviglia: l’aurora boreale: il cielo è solcato da sfavillanti cortine di luce verde – azzurro che si formano, danzano, quindi si dissolvono per riformarsi come in un immenso caleidoscopio, senza soluzione di continuità. Sono incantato da questo spettacolo della natura, un altro di quelli che non si possono descrivere, ma dopo mezz’ora il gelo mi costringe a rientrare: esamino il termometro: i suo minimo è – 30°, questo è stato raggiunto e, pertanto, mi è impossibile sapere quanto siamo sotto.
CON LE SLITTE DEGLI INUIT
Al mattino il vento è calato, la temperatura dell’aria è a -20° ma il sole scalda, e con l’abbigliamento tecnico si sta anche bene. Il bravo Silver ci ha detto di trovarci, con un bagaglio ridotto al minimo, in una spianata fuori dal paese. E’ il luogo di raduno di quanti partono verso l’interno con le slitte, e noi che siamo in sette viaggeremo su altrettante slitte, ognuna condotta da un inuit. Ultimato il carico di viveri, fucili, combustibile, tende e quant’altro può servire per una piccola spedizione polare, si parte. Ogni slitta è trainata da 13 – 15 cani, che obbediscono agli ordini del conducente con una sincronia impressionante.
Chi pensa che viaggiare in slitta sia riposante – tanto fanno tutto i cani – si sbaglia: In Groenlandia, a meno che non si sia già sull’ inlandsis, il terreno è molto accidentato, e ai tratti piani lungo i fiordi ghiacciati seguono le montagne. Appena si prende una salita bisogna scendere svelti a terra e mettersi a correre accanto alla slitta, talvolta anche spingendola, per poi saltare correndo (letteralmente) sulla slitta non appena questa, adagiandosi il pendio, riprende velocità, perché i cani non si fermano. In discesa, poi, con terreno ghiacciato la slitta va a rotta di collo spesso – se il pendio è accidentato – compiendo anche dei salti. I cani stanno pertanto dietro, non riescono a tenere il passo e vengono trascinati ribaltandosi e ingrovigliandosi, costituendo così un provvidenziale freno. Tutto il viaggio sarà condizionato dal ghiaccio vivo onnipresente: difficilissimo mantenersi in piedi se si scende dalla slitta, difficile per i cani trascinarla, le loro zampe si tagliavano lasciando sul ghiaccio tante macchie rosse. Alla fine ci ritroveremo tutti indolenziti, pieni di ematomi per le ripetute scivolate.
La sera raggiungiamo una baracca in legno che funge da rifugio. Il fuoco prontamente acceso rende l’ambiente caldo e confortevole, e gli inuit si mettono a cucinare. La loro ricetta è semplice: riempiono un pentolone di ghiaccio, quando questo è sciolto gettano dentro i pezzi di carne essiccata (foca/renna/pesce, impossibile distinguere: è tutto con lo stesso gusto), e quando la zuppa bolle ce la servono. Prima di cena abbiamo modo di assistere a un altro spettacolo: il pasto dei cani, che nel caso sono circa un centinaio. Di tanto in tanto uno di questi alza verticalmente il muso, mettendosi a ululare come un lupo. Immediatamente lo seguono anche gli altri, e l’effetto fa letteralmente accapponare.
Il secondo giorno di viaggio ci vede impegnati lungo un fiordo coperto da ghiaccio azzurro, liscio come il vetro. Di tanto in tanto bianchi pinnacoli azzurrognoli, che altro non sono se non iceberg imprigionati nella banchisa, rompono la monotonia di quella distesa. Alla fine una lunga barriera di ghiaccio ci avverte che stiamo avvicinandoci all’inlandsis, che dovremmo risalire prendendolo sulla sinistra, dove degrada un po’ più dolcemente. Qui, però, finisce il nostro viaggio verso nord: il pendio, sebbene dolce, è formato da massi di ghiaccio lucido, sul quale le zampe dei cani non fanno alcuna presa: la slitta scivola immancabilmente di traverso e non si può nemmeno spingere, perché non si sta in pedi. Dopo alcuni inutili tentativi dobbiamo pertanto desistere e dirigere verso la costa, dove gli inuit sanno esservi una baracca che potrà ospitarci. Arriviamo che fa quasi scuro, s’è alzato un vento tagliente, il pulviscolo di ghiaccioli corre veloce lungo il suolo e siamo ben felici di avere un tetto sopra noi.
I PESCATORI DEL GHIACCIO
Il terzo giorno di viaggio lo impieghiamo per tornare al rifugio della notte precedente. Da qui, anziché puntare direttamente a Ilulissat gli inuit ci propongono una variante di due giorni che – ci assicurano – non ci deluderà. Il mattino successivo procediamo pertanto lungo un fiordo ghiacciato, ad un tratto tenendoci sotto incombenti pareti verticali dove, a causa dell’inversione termica, il gelo è tale da farmi sembrare l’aria addirittura densa: una sensazione che non avevo mai provato prima, e che mai più mi è capitata. Superata la strettoia il fiordo si apre in una vasta spianata che altro non è se non una baia ricoperta dal pack, al centro della quale scorgiamo un accampamento: si tratta di pescatori, che dalle buche scavate nel ghiaccio traggono un’incredibile quantità di pesce immediatamente – e naturalmente – surgelato. Questo viene caricato sulle motoslitte che giornalmente fanno la spola fra il campo e Ilulissat, dove lo attendono le navi. Ormai s’è fatto tardi, e pernotteremo erigendo le tende nell’accampamento. Mi chiedo come sia possibile dormire in tenda con quel freddo, tanto più che queste – forniteci dagli inuit – sono composte da un unico telo da vela. Timori infondati, questi, perché accendendo all’interno un semplice fornello da campeggio il caldo sarà tale, da costringerci a dormire con il sacco piuma aperto.
Il mattino nevica. Le tende sono ricoperte dalla neve, ma non solo le tende. Al suolo ci sono tante gobbette bianche: sono i cani, abituati a dormire all’aperto anche in queste condizioni. Ricomposte le slitte partiamo per Ilulissat. Continua a nevicare intensamente, la visibilità è scarsissima e i cani si aprono faticosamente la strada sprofondando nella neve fresca. Tutto è ovattato, irreale, e pare di vivere in un film.
SULL’ISOLA DI DISKO
Rientrasti così a Ilulissat, e avendo a disposizione i giorni risparmiati accorciando il viaggio con le slitte, Silver ci fa una proposta che accettiamo subito: andare con l’elicottero di linea sull’isola di Disko, per un soggiorno di tre giorni. Il mattino seguente siamo così all’aeroporto dove c’è ad attenderci il rosso elicottero pronto a partire per il villaggio dal nome impronunciabile di “Ququertarsuaq”, la principale località di Dislko. Nevica ancora intensamente, l’elicottero quasi non si vede ma il pilota, caricati alcuni di noi (per portare tutti noi, più alcuni inuit, dovrà fare tre viaggi) aziona i rotori e come niente fosse si solleva in volo, in un impressionante trurbinio di neve. Poi s’inclina, vira e punta verso il mare aperto. Pure questo viaggio è irreale: in mezzo alla nevicata l’elicottero vola tenendosi a pochi metri d’altezza sopra il mare, sfioranado gli iceberg. Lentamente iniziano a delinearsi le scure falesie dell’isola di Disko e infine appaiono le colorare casupole di Quaquertarsuaq, dove finalmente atterriamo. Il paese è sommerso dalla neve fresca e sembra di essere a Cortina. Sulla parete rivolta a meridione di una casa notiamo la bianca pelle di un orso, stesa ad essiccare.
Il mattino seguente il tempo è splendido: ne approfittiamo per fare un’escursione nella neve fresca fino a un promontorio, alto sul mare cosparso di blocchi di ghiaccio di ogni dimensione. Davanti al paese sfilano, silenziosi, iceberg di grandi proporzioni, con un effetto surreale.
L’ultimo giorno di permanenza sull’isola lo impieghiamo per una traversata mozzafiato sulle motoslitte lungo la Blaesedalen (valle ventosa) fino al Kangikerland Fjord, sulla costa settentrionale dell’isola. Anche qui siamo su sette motoslitte, ognuna con il suo guidatore inuit. Questi sono tutti giovani, e avanzando in formazione sul terreno aperto divertendosi a sfrecciare nella neve fresca. Non resta che sperare di non incappare in un qualche improvviso avvallamento o, peggio, in un crepaccio, ma quei giovani inuit sanno il fatto loro, e alla fine ci avranno regalato una bellissima esperienza. La sera l’elicottero ci riporta a Ilulissat. Il giorno seguente un altro elicottero ci condurrà – sempre sorvolando la baia di Disko – alla cittadina di Aasiaat, regalandoci le ultime emozioni groenlandesi. Poi l’aereo, e il ritorno alla vita di ogni giorno.
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